Le comunità di produzione e consumo di energia rinnovabile e i tanti progetti di autoproduzione agricola urbana dimostrano che in Italia esiste una società civile che si organizza per un nuovo sviluppo economico e ambientale sostenibile. Peccato che la politica non se ne renda conto

La pandemia ha messo in evidenza la fragilità del rapporto fra uomo e natura e le conseguenze catastrofiche che derivano da una sua alterazione. Forse fra i pochi aspetti positivi di questa tragedia planetaria c’è un rinnovato interesse per l’ambiente, sia pure ancora solo a livello potenziale e con tutte le contraddizioni e i limiti di una cultura disabituata a fare i conti con questi temi.
La necessità di far ripartire l’economia in un quadro di maggiore sostenibilità sta gettando le basi per il superamento della dicotomia fra ecologia, reddito e lavoro. Mai come in questo particolare momento della nostra storia recente si è manifestata in tutta la sua evidenza la connessione che lega questi tre elementi dentro la necessità di elaborare un nuovo modello di sviluppo.

A fronte (o forse si potrebbe dire anche a dispetto) di questa evidenza, la politica che governa il mondo intero, l’Europa e i singoli Stati sembrano a volte muoversi in direzione ostinatamente contraria. Come se le emissioni climalteranti non si fossero già manifestate in tutta la loro devastante brutalità, come se l’emergenza climatica non fosse già sufficientemente acclarata, come se la pandemia non ci avesse insegnato nulla.
La Cop 26 di Glasgow, più che fornire risposte, ha posto altre domande. Prima fra tutte come bloccare l’uso dei combustibili fossili per contenere il riscaldamento globale nel limite di 1,5 °C, questione vitale ma rimasta ancora di fatto irrisolta.
Allo stato attuale, le emissioni di CO2 di ogni abitante del pianeta sono mediamente doppie rispetto a quelle necessarie per traguardare questo obiettivo, anche se con forti sperequazioni fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Le emissioni climalteranti dell’1% della popolazione più ricca sono non doppie, ma 30 volte superiori a quelle considerate in linea con questo obiettivo.
Per questo, la lotta all’inquinamento e all’emergenza climatica si configura sempre di più come lotta ai privilegi di pochi ai danni di molti.

In Europa, dopo mesi di polemiche molto accese, la Commissione ha pubblicato il testo della tassonomia verde che orienta il piano degli investimenti considerati sostenibili per i prossimi 30 anni. Fra questi, incredibilmente, rispuntano il nucleare e il gas.
Anche le cosiddette sezioni “resilienti” del Piano nazionale di ripresa e resilienza mostrano notevoli contraddizioni. Dei 68,6 miliardi di euro assegnati alla transizione ecologica, 5,27 miliardi di euro sono dedicati complessivamente allo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile e dell’economia circolare. Nello specifico, all’economia circolare (che è l’unico vero motore di una rivoluzione verde) sono stati assegnati appena 2,6 miliardi di euro. La maggior parte dei fondi sono dedicati alla…


L’articolo prosegue su Left del 25 febbraio 2022 

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