Cuori selvaggi. Capaci di guardare oltre il presente, cercando di immaginare e costruire un futuro diverso, di pace, di giustizia sociale, di rispetto per l’ambiente. Ce ne è ancor più bisogno dopo due anni di pandemia è tre mesi di insensata e disumana aggressione di Putin all’Ucraina. Per questo motivo, “Cuori selvaggi” (omaggio a Lispector) è stato scelto come titolo della nuova edizione del Salone internazionale del libro di Torino.
«Quando abbiamo cominciato a pensare al Salone 2022 non c’era ancora questa guerra. Non era nemmeno immaginabile che scoppiasse. Ma già venivamo da un periodo lungo di crisi e assai difficile», racconta lo scrittore Nicola Lagioia, direttore della 34esima edizione del Salone internazionale del Libro di Torino (al Lingotto, dal 19 al 23 maggio).
«Negli ultimi anni abbiamo incontrato tre “cigni neri”: la crisi economica del 2008, poi la pandemia (anche quella prevedibile ma non prevista) e ora la guerra, mentre la pandemia forse sta finendo. Tre cigni neri più uno di cui non ci rendiamo conto». Ovvero? «È il cigno nero più contro intuitivo di tutti ed anche quello potrebbe creare problemi e cambiamenti perfino maggiori: è il climate change ed è collegato a molti altri temi, perché il cambiamento climatico riguarda la scienza, la geopolitica, l’economia…».
Non a caso l’edizione 2022 del Salone si è aperta il 19 maggio con una lectio di Amitav Ghosh, scrittore di grande sensibilità verso i temi ambientali e autore di libri come La grande cecità: il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza) e del nuovo Jungle nama con cui si rivolge ai più giovani.
Il passaggio che stiamo attraversando è epocale. Dobbiamo realizzare un radicale cambiamento di mentalità, di cuore, di prospettiva. “Possono i non umani parlare” è il titolo che Ghosh ha scelto per la sua conferenza proprio per dire che noi Sapiens non possiamo essere al centro del pianeta, come se il globo fosse al nostro servizio. Ne siamo il frutto, in continua interazione rispetto a tutto ciò che ci circonda.
“La pace è rinnovabile e la guerra è fossile”, dicono i giovani dei Fridays for future. Guerra e distruzione dell’ambiente sono temi intrecciati?
Mi sembra una sintesi perfetta (peraltro la nostra collaborazione con i Fridays continua. Anche quest’anno intervisteranno ospiti al Salone). La questione bellica assorbe tutte le nostre attenzioni e lascia sullo sfondo l’emergenza principe che l’umanità doveva risolvere. Dobbiamo urgentemente mettere in discussione un certo modo di produzione, di sviluppo. È bizzarro: da un lato viviamo nell’antropocene, la prima età geologica i cui i cambiamenti più importanti derivano dalla specie umana, dall’altro siamo in un’epoca in cui sembra sempre che stiamo perdendo il controllo della situazione e la guerra ci aiuta a perderlo ancora di più. Durante la Seconda guerra mondiale i nazisti non avevano l’atomica. Concentrare così tanto potere nelle mani di un uomo è una cosa che il pianeta non si può permettere. Chiunque è toccato da questa guerra, non solo noi europei. Anche perché rallenta le sfide del XXI secolo. E sono sfide che possono essere risolte solo a livello globale.
Il pensiero libero, la cultura, l’arte sono l’opposto della granitica ideologia e del dogma religioso. Possono essere un’arma anche per decostruire l’ideologia nazionalista e imperialista di Putin?
Tutti (o per meglio dire… quasi tutti!) siamo rimasti impressionati dalla violenza con cui Putin ha invaso l’Ucraina. Sui giornali giustamente sono stati sviluppati molti ragionamenti sulla geopolitica, ma forse non si è parlato abbastanza del confronto fra culture. Evidentemente ci sono culture come quella di Putin basate sulla violenza. Ma nel mondo ce ne possono anche essere altre che non la contemplano. Questa guerra è guidata dal nazionalismo imperialista. Ma c’è anche una questione religiosa. Sotto c’è la spaccatura fra la Chiesa di Mosca e le altre Chiese cristiane e addirittura fra Chiese ortodosse. C’è poi una questione storica. E c’è anche una questione molto strana, affascinante se non fosse tragica.
Quale?
In questo momento a tenere viva la Russia in una prospettiva futura è l’alleata Cina.
Molti parlano di alleanza di convenienza, strategica, momentanea e che già pesa al colosso asiatico. Anche culturalmente la distanza è grande?
La Russia ha un Pil inferiore dell’Italia ed è uno dei Paesi più grandi del mondo, dunque è molto fragile, da molteplici punti di vista. Ma non solo per questo dico che l’alleanza con la Cina appare molto strana. La Russia condivide la propria cultura molto più con il resto d’Europa che non con la Cina. Basti pensare alla religione. Non c’è questa radice comune con il Paese di Xi. Anche nella loro parabola storica ci sono molte differenze. L’obiettivo della Cina è la stabilità. La Russia è un Paese che a differenza della Cina ha avuto crolli continui, ha una instabilità pericolosa. La Russia ha una storia punteggiata di rotture: ha avuto gli zar, poi c’è stata la Rivoluzione di ottobre, un momento di grande violenza che però avrebbe dovuto essere rigenerativa. Poi però è arrivato Stalin e l’agghiacciante stalinismo ed arrivò la fase che avrebbe portato a Chernobyl e al crollo dell’Urss. Hanno avuto terribili anni 90 e subito dopo il sorgere di questo nuovo Stato autoritario molto diverso dall’Unione sovietica.
Putin si rifà alle idee di Dugin (guru dell’ultra conservatore congresso della famiglia voluto da Salvini nel 2019) e di Ivan Ilyin, che aveva simpatie per Mussolini. Non sembra tuttavia voler ricostruire l’Urss, come dicono alcuni, sembra piuttosto guardare alla grande Russia degli zar. Ci sarà modo di approfondire anche tutto questo al Salone?
Io non capisco come i nostri commentatori possano sovrapporre quei due momenti storici. L’Urss certo non era un posto ospitale ma non aveva nel suo Dna questa logica che Putin vuole imporre oggi: era internazionalista perché si rifaceva a una certa forma di marxismo, mentre qui siamo davanti a un nazionalismo molto spinto, che sposta la Russia di oggi all’estrema destra se vogliamo tracciare un quadro chiaro e dare al regime di Putin una collocazione politica. Al Salone c’è il tempo per sviscerare tutte queste questioni, c’è la possibilità di non fermarsi ai discorsi immediati di cronaca. Cerchiamo di stare un po’ meno sull’immediato e avere uno sguardo più ampio. Un dibattito un po’ più lento rispetto a quello istantaneo dei talk show magari serve.
Le guerre scoppiano non perché leggiamo troppo Dostoevskij, ma perché lo leggiamo troppo poco, ha scritto lo storico dell’arte Fulvio Cervini su Left. È così?
D’accordo, ma la letteratura non è una garanzia di niente. Prendiamo per esempio Stalin: si dice che fosse un amante della letteratura, però poi puniva gli scrittori che vezzeggiava. Ci fu una famosa telefonata di Stalin a Bulgakov. Gli disse di aver molto apprezzato le sue opere, ma poi il povero Bulgakov non poté più scrivere nulla. Il maestro e Margherita uscì postumo. In realtà quello di Stalin era un amore superficiale. Quanto ai personaggi di Dostoevskij sono molto russi. Sono molto viscerali. È stato un grande precursore degli studi sull’irrazionale e di tutto quello che è successo nel Novecento nello studio delle psicologie. Ma se dal punto di vista letterario questo è molto affascinante, dal punto di vista sociale, quel che racconta è, spesso, inquietante.
Lo è se pensiamo a romanzi come Delitto e castigo e a Raskòlnikov, che uccide per nulla. Ma anche a I demoni e al nihilismo che Dostoevskij ha saputo ben rappresentare. Poi lui stesso, da ultimo, è scivolato nel populismo zarista…
In questo senso il suo grande avversario è Tolstoj. L’autore di Guerra e pace era per il disarmo. Era un uomo molto tormentato. Si sentiva in colpa per il fatto di essere un grande proprietario terriero. Se c’è un autore che oggi la Russia non riesce a guardare negli occhi, direi che quello è Tolstoj, proprio perché era un pacifista.
Anche rileggere La Russia di Putin di Anna Politkovskaja, ma anche Stalingrado di Vasilij Grossman che ora Adelphi pubblica fa capire molto della Russia di ieri e di oggi?
Sicuramente. Grossman è un autore davvero da riscoprire. È un grande scrittore del Novecento ma viene poco canonizzato. Invece Vita e destino e Stalingrado sono grandi romanzi. Però ci sono anche scrittori del presente, una è certamente Anna Politkovskaja. Ma faccio anche un altro esempio: due o tre anni fa abbiamo avuto ospite al Salone Masha Gessen, autrice de Il futuro è storia (Sellerio). Ha scritto molti libri sulla transizione russa, sul passaggio dall’Urss alla Russia di Putin. Dai suoi libri era già chiaro che la Russia era (ed è) un Paese con il quale fare meno affari possibile, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico. Come europei stiamo raccogliendo la tempesta che abbiamo seminato. Noi italiani in particolare. Mezza classe politica era amica di Putin e ora non gli rispondono più al telefono. Londra è stata venduta agli oligarchi. Non è solo la questione del Chelsea, la squadra che fu acquistata da Abramovich. La borsa di Londra ha fatto felici i russi e gli ‘ndranghestisti. Ora, improvvisamente, il premier britannico Johnson diventa il più grande avversario di Putin, dopo avergli aperto tutti i cancelli. Che la Russia fosse un Paese molto pericoloso lo dovevamo sapere da tempo, è curioso che ci sia voluta l’invasione dell’Ucraina per scoprirlo.
Dalla Russia, chi poteva, è fuggito dopo l’inizio del conflitto.
Ho un caro amico che abitava in Russia, ci conoscevamo fin da piccoli, si è innamorato della letteratura russa, è andato là a studiarla, lavorava nell’arte contemporanea ma è scappato 15 giorni dopo l’invasione. Mi ha detto “guarda noi abbiamo visto in 20 giorni la trasformazione di uno Stato autoritario in uno Stato di polizia. Quando abbiamo visto i nostri amici interrogati dalla polizia per un post su Facebook abbiamo pensato che dovevamo scappare”. Parliamo di uno Stato di polizia in cui i giornalisti vengono ammazzati per omaggiare il capo il giorno del suo compleanno, è il caso di Anna Politkovskaja.
Una parte dei nostri intellettuali e dell’opinione pubblica, invece, fatica a sganciarsi dalla Russia?
Se tu hai avuto un rapporto così stretto negli ultimi 20 anni diventa difficile… Ma che quello fosse un governo a dir poco problematico dovevamo capirlo. D’accordo c’era interazione economica, ma ciò non implica che ci sia la pace, le sanzioni non stanno funzionando, altrimenti si sarebbe già fermato tutto.
Al Salone ci sarà anche Luciano Canfora che esprime un punto di vista diverso…
Canfora parlerà di storia antica. Ma probabilmente parlerà anche di altro. Ovviamente visto quello che sto dicendo non sono affatto d’accordo con lui sulla Russia. Il fatto di minimizzare così tanto non mi corrisponde. Questo non significa che Canfora non possa venire al Salone a dire la sua, la democrazia è questa. Ma anche io posso dire che, per me, ha preso una cantonata.
Dopo il caso della Bicocca, anche il Premio Strega ha ostracizzato giurati russi per poi fare un passo indietro. Cui prodest? Attraverso la demonizzazione di un intero popolo non si arriva alla pace. Prima o poi dovremo riuscire a costruire un dialogo con i russi o no?
Tanto è vero che il 21 maggio sarà al Salone un autore russo che è anche candidato al Premio Strega Europeo, Mikhail Shishkin, per il libro Punto di fuga edito da 21 lettere. Al Salone la cultura russa è ben accetta, ma non ci sono delegazioni ufficiali russe. Dopodiché, se posso dire, casi come quello della Bicocca sono stati eclatanti ma isolati. Dall’altra parte della nuova cortina di ferro è il contrario: ci possono essere tre o quattro casi che sfuggono alla censura che ne colpisce diecimila. Lo so, non si può dire, ma noi abbiamo un sistema democratico per cui al 90 per cento dei casi le idee hanno libera circolazione, è un sistema più evoluto, più civile rispetto a un sistema in cui questo non è possibile. In Italia non c’è la censura, ci può essere un caso isolato, ma il nostro è un Paese libero e la Russia non lo è. È preferibile? Non direi, tanto che in molti vogliono venire qua e nessuno vuole andare in Russia, ci sarà pure un motivo.
Tanti scienziati, documentaristi e artisti russi si sono espressi coraggiosamente contro la guerra di Putin, rischiando. Abbiamo raccolto molte testimonianze nel libro L’arte di costruire la pace. Dobbiamo il più possibile dar loro voce?
È giusto fare da megafono ai dissidenti russi. Shishkin parla al Salone da dissidente, gli diamo volentieri spazio. Come accadeva durante la Guerra fredda, in molti scappavano e trovavano asilo in Europa e trovavano qua la libertà per continuare a fare le loro battaglie. In Italia i dissidenti non esistono, perché non c’è una dittatura, chi ha idee contrarie le va a dire in tv, al Senato ecc. E questo certifica anche la maturità della nostra democrazia.
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