Da una favola persiana nasce il concetto di serendipità alla base di rivoluzioni scientifiche racconta il filosofo della scienza nel suo nuovo libro in cui narra grandi conquiste della ricerca realizzate grazie a intuizioni, capacità di immaginare e ad apertura all’inatteso

Mai come negli ultimi due anni la ricerca scientifica è stata al centro dell’attenzione pubblica. È accaduto, purtroppo a causa della pandemia da Covid 19. Ma è stato un fatto epocale, con scienziati da ogni parte del mondo che hanno messo in comune il loro sapere e le loro conoscenze per mettere a punto rapidamente un vaccino. In breve tempo hanno realizzato un grande obiettivo, impensato. Ma poi non tutto è andato come doveva andare. Il fatto più grave è stato l’accesso limitato che i Paesi del Sud del mondo hanno avuto al vaccino, a causa della speculazione delle grandi aziende farmaceutiche. Nel frattempo, incredibilmente, in quell’Occidente che aveva e ha la possibilità di vaccinarsi sono emerse frange negazioniste. Minoritarie, per fortuna. Ma grazie ai media mainstream hanno avuto grande visibilità e risonanza. E ben al di là dello zoccolo duro, dogmatico, dei no vax, la pandemia ha portato alla luce un fenomeno più vasto di scarsa confidenza con il metodo scientifico, che chiede indagine, capacità di continuare a farsi domande anche nell’incertezza, studio, ma anche coraggio, fantasia. «È proprio questa la ragione per cui ho deciso di accelerare la scrittura di questo libro su un tema che mi sta a cuore da molto tempo, la serendipità», ci racconta Telmo Pievani, a margine della presentazione di Serendipità. L’inatteso nella scienza, il volume edito da Raffaello Cortina, al Salone del libro di Torino (il 29 maggio il filosofo della scienza ne parlerà a Pistoia per i Dialoghi sull’uomo)

Pievani, la comunicazione scientifica durante la pandemia non sempre è stata ottimale?
Sinceramente molti colleghi parlando di scienza in pubblico si sono dimenticati un punto fondamentale: quando si condivide la conoscenza, per questione di trasparenza democratica non basta raccontare i risultati, le scoperte. Bisogna principalmente spiegare la scienza come un metodo, come processo, come insieme di attività che possono essere fallibili, imperfette. Ma che ci portano a conoscenze attendibili anche se, talora, rivedibili. È una attitudine importante anche dal punto di vista democratico, contro ogni autoritarismo.

Questo processo della conoscenza andrebbe spiegato, divulgato adeguatamente?
Sì, andrebbe spiegato. Invece ho visto tanto narcisismo, tanto paternalismo, tante rivalità inutili, tante contraddizioni. Tante previsioni quando non era prematuro avanzarle. Bisognava invece fare comunicazione in modo diverso, perché questa pandemia ha sorpreso tutti, compresa la comunità scientifica che ha brancolato nel buio nelle prime settimane e poi ha sempre avuto a che fare con l’incertezza nei risultati. Anziché negare quella incertezza imbarazzati andava e va spiegata perché è proprio la natura del metodo scientifico.

Il metodo scientifico «è democratico ma non populista», lei ha detto. In ogni caso però i dati, anche disaggregati, dovevano essere resi pubblici e messi a disposizione di chiunque. O no?

Con questa metafora politica intendo dire che la scienza è democratica nel metodo che porta ad ottenere risultati. I dati hanno dei vincoli, legati alla competenza di chi li ha raccolti e occorre saperli leggere. Non c’è nulla di più lontano dal metodo scientifico che “l’uno vale uno”. Dopodiché i dati vanno resi trasparenti. E questa è stata una lezione dura, ma anche positiva che ci ha inferto la pandemia. Mai come in questi due anni sono stati condivisi dati che prima invece erano trattati in modo molto più riservato e geloso. Li abbiamo visti uscire anche nei preprint, il che – va detto – è anche un po’ pericoloso perché andrebbero presi un po’ con le pinze. Però gruppi di ricerca nel mondo hanno condiviso subito informazioni come prima non facevamo. È stato uno choc che ha portato a una maggiore condivisione aperta.

Tanto che questa ricerca sui vaccini anti Covid-19 ha portato ad acquisizioni inaspettate anche in altri settori medici?

Direi che lo stesso vaccino mRna è una bella storia di serendipità. Mi viene da sorridere quando dicono che il vaccino è sperimentale. In realtà, fin dagli anni Ottanta circola l’idea di usare l’mRna. Anche in questo caso va detto: molti scienziati non ci credevano. Perfino un premio Nobel negli anni Novanta sentenziò: “Non riuscirete mai a fare farmaci o vaccini con mRna”. Ciò suggerisce che nella scienza dobbiamo sempre evitare di fare previsioni generali, perché si rischia sempre di essere smentiti. Questa della mRna è una vecchia idea, applicata in ambito oncologico che è stata applicata sui vaccini influenzali. Fa vedere molto bene anche la modalità artigianale del metodo scientifico.

La ricerca è stata produttiva grazie a massicci investimenti pubblici, come abbiamo visto.

In quei mesi del 2020 c’era una pressione fortissima, sono stati investiti tanti soldi per trovare i vaccini al più presto possibile. Qualcuno ha preso la strada tradizionale, ricorrendo a virus attenuati, e qualcun altro si è detto vediamo se c’è una tecnologia già esistente che possiamo convertire e riutilizzare per fare qualcosa e per fortuna ha funzionato. Questo dà anche un po’ l’idea del bricolage su cui si fonda la ricerca scientifica: si usa quello che c’è e si prova a dargli un senso diverso.

L’impiego dell’mRna è un esempio di serendipità forte o debole?

È un esempio di serendipità debole, perché c’era già in ricerca. È un riutilizzo nell’ambito dei vaccini. Ma gli scienziati in questo caso non stavano cercando qualcosa di completamente diverso. Frutto di serendipità debole fu anche la penicillina. È un caso classico ma si dimentica spesso che Fleming stava lavorando sugli antibiotici. La sua ossessione era trovare gli antisettici per i soldati in guerra e, più in generale, per combattere le infezioni. Poi, certo, ci arrivò in modo rocambolesco, fortunato, con un paio di eventi inattesi. La lacrima che gli cadde sulla piastra e la muffa che ci finì dentro. Come lui ammise, fu una scoperta serendipitosa, aiutata dalla fortuna, ma lui stava cercando proprio quello. La serendipità forte, quella più misteriosa e affascinante, si concretizza quando qualcuno intraprende una ricerca perché ha una sua domanda, un suo obiettivo e poi cammin facendo trova tutt’altro e scopre qualcosa che non stava cercando. Quella è la serendipità che ci interroga di più sulla bellezza del metodo scientifico.

Qualche esempio di serendipità forte?

Sono tanti: il velcro fu scoperto per caso da uno scienziato svizzero attraverso la bardana alpina che si attacca al pelo degli animali. Ma penso anche a tutte quelle serendipità – che a me paiono bellissime – in cui si trova prima la soluzione del problema e poi si scopre il problema. Penso per esempio a quei matematici che si misero a giocare con geometrie alternative che poi rimasero lì in un cassetto, come un gioco matematico. Settanta anni dopo, Einstein si rese conto che proprio una di quelle era un gioco matematico che descriveva l’universo della relatività generale. È straordinario come la mente umana, giocando con il rigore matematico, riesca a trovare prima il linguaggio e poi il contenuto di quel linguaggio. Questa per me è la serendipità più interessante.

Scoperte serendipitose implicano una spiccata capacità di immaginare? Penso per esempio al bosone scoperto da Higgs prima di averne le prove.

Il caso del bosone è proprio un esempio che ricalca la favola dei tre principi di Serendippo da cui sono partito. Da lì comincia tutta questa storia. Nella favola persiana originaria i tre principi indovinano la presenza di oggetti che non hanno visto. Quella metafora poi fu ripresa da Voltaire in Zadig e nella scienza ha portato a scoperte fondamentali. Il bosone è stato predetto a livello teorico e sessant’anni dopo venne osservato. Esattamente come i tre principi di Serendippo: sapevano della presenza di un cammello con certe caratteristiche e poi, anni dopo, lo trovarono. Qualcosa di analogo è accaduto per le onde gravitazionali. Einstein ne previde l’esistenza in via teorica, non c’erano gli strumenti per osservarle. Molti anni dopo abbiamo trovato uno strumento che permette di vedere ciò che lui aveva soltanto immaginato e previsto. È una forma di immaginazione rigorosa su basi scientifiche.

I Nobel Rita Levi Montalcini e Giorgio Parisi hanno parlato dell’importanza nelle scoperte scientifiche di una intuizione, di un elemento inconscio, di un pensiero che non è quello diurno. Che ne pensa?

Questo è uno dei motivi per cui questo tema è stato trattato molto poco nella filosofia della scienza. Da Popper in avanti molti filosofi hanno sostenuto che il contesto della scoperta sarebbe troppo irrazionale, difficile da irreggimentare. In modo un po’ squalificante hanno sostenuto che questa sia materia per psicologi e sociologi, non materia per logici ed epistemologi. Oggi sappiamo che non è così: indagare queste dinamiche più inconsce delle scoperte è molto interessante. La storia dei sogni di Friedrich August Kekulé von Stradonitz sotto questo riguardo è molto bella. Sostenne di aver scoperto la struttura del benzene dopo aver sognato l’uroboro. Era molto affascinato da quella figura mitica del serpente che si arrotola su se stesso. La soluzione ad un rompicapo su cui ti stai arrovellando da tempo ti arriva da una sorgente laterale, non dal punto di focalizzazione in cui tu sei. Quindi, più ti incaponisci sul problema, più non trovi la soluzione. La soluzione ti arriva lateralmente quando allenti un po’ l’attenzione focalizzata sul problema. Questo lo hanno notato tantissimi scienziati.

Un elemento di irrazionalità creativa c’è anche nel riuscire a vedere l’invisibile. Rimanere attaccati al dato di realtà superficiale non permette di vedere ciò che sta sotto?

È così. A questo proposito Darwin dette una bella definizione: “La scienza è vedere connessioni invisibili fra fatti sparsi”. Davanti a te hai un puzzle con solo qualche tessera qua e là. Hai soltanto qualche frammento di fatti, di evidenze. La scoperta è trovare le connessioni invisibili. Un’altra cosa che mi ha sempre divertito è che quando qualcuno fa una grande scoperta, una di quelle che ti aprono gli occhi, immediatamente i suoi colleghi dicono: “Ma come ho fatto a non vederlo, era lì”. Non è causale. È proprio questo che dobbiamo capire: Perché l’ha visto lui e non io? Anche se anche io l’avevo sotto gli occhi. Questo è l’elemento irrazionale difficile da modellare della scoperta.

L’ideologia, la religione sono d’ostacolo alla ricerca? Penso alla scoperta delle pitture parietali di Altamira che furono stigmatizzate come false da religiosi e positivisti. Penso a Ruben de la Vialle che nel Seicento scoprì importantissimi graffiti a Tarascon ma non li riconobbe come tali; ci mise la firma accanto e se ne andò. Quanto i pregiudizi e l’ideologia frenano la possibilità di fare scoperte?

Il punto è come definiamo un pregiudizio. Dobbiamo essere onesti: tutti noi abbiamo dei pregiudizi, per non dire sistemi di credenze. Lo scienziato, come diceva Louis Pasteur, non è una tabula rasa che si lascia permeare dai dati. Lo scienziato è una persona che si fa delle domande. Se ti fai delle domande significa che hai delle aspettative, hai già una tua teoria, una tua visione del mondo. L’attitudine creativa alla scoperta viene quando queste tue aspettative sono disponibili a farsi fecondare dai dati che poi tu raccogli. Quando le aspettative pregiudiziali diventano un filtro ideologico portano a una cecità  come appunto nell’esempio che facevamo ora dell’arte preistorica: in quel caso tu vedi ma in realtà non stai vedendo perché hai un filtro selettivo ideologico – che può essere religioso o di altro tipo – che ti impedisce di vederlo. Il confine è quello lì, è quando il pregiudizio diventa una cecità selettiva che non ti fa vedere le cose. E questo per me è una emergenza del nostro tempo. Basta vedere come avvengono i dibattiti sui social network. Sono proprio la negazione del dubbio. Tutti sono pieni di certezze, sono tutti convinti di possedere la verità. Non ci sono più sfumature. Io penso che questo sia un grosso problema che attanaglia il modo con cui dibattiamo.

E addirittura emergono dogmi, dei tabù intoccabili. Guai a smascherare illusioni come l’omeopatia Nel dibattito online si viene addirittura aggrediti.

Sì, scatta una sorta di riflesso condizionato. Non ne vogliono sentir parlare.

Il suo libro, Serendipità, scardina anche un altro pregiudizio, quello dell’incompatibilità fra letteratura e scienza?

Anche da questo punto di vista la serendipità mi è sempre piaciuta molto come concetto. Ne parlavo con il mio maestro Giulio Giorello che l’amava molto, perché travalica tutti i confini, di scienza, letteratura. La serendipità è una idea che arriva nella scienza tutto sommato abbastanza tardi, nella prima metà del Novecento. Ma in realtà circolava in tante altre forme di sapere molto tempo prima. Nell’Ottocento era una parola che usavano i bibliofili, gli antiquari, i cercatori di libri antichi. Era una specie di musa per loro. Stai cercando qualcosa ma poi su una bancarella improvvisamente ti compare qualcosa di molto più prezioso che non stavi cercando.

Da questo punto di vista dobbiamo riabilitare Horace Walpole e il suo Castello di Otranto e al suo ciarpame gotico che ci sembrava tanto peregrino quando lo studiavamo al liceo. Coltivare la bizzarria, il desueto, le cose che appaiono minori può portare su un terreno creativo e di scoperta?

Walpole ha il merito involontario di aver coniato il concetto di serendipità attraverso un fraintendimento. Lo mutuò dalla novella del “Dante persiano” Amir Khusrau (1253-1325) tradotta da Cristoforo Armeno a Venezia nel 1557. Anche se in quella favola i principi non trovano qualcosa che non stavano cercando, lui la interpretò in quella chiave, per cui ebbe a dire: per me la serendipity è scoprire qualcosa che non stavi cercando. Introdusse una deviazione nell’accezione che poi ebbe grande fortuna. L’idea rimase sotto traccia qualche secolo e poi nel Novecento venne usata in ambito scientifico. Ho cercato di capire anche quante altre formulazioni abbiano sfiorato quel concetto, anche se non lo chiamavano in quel modo. Chiaramente Pasteur quando diceva che gli scienziati davvero creativi sono quelli in cui il caso aiuta una mente preparata, stava sostanzialmente ripetendo il concetto di Walpole in un altro modo.

Il concetto di serendipità in qualche modo decostruisce l’opposizione Occidente Oriente, per cui l’Occidente sarebbe la razionalità illuminata superiore e l’Oriente invece sarebbe la dispersione. L’incontro fra Oriente e Occidente è invece fruttuoso?

Assolutamente sì, dobbiamo smantellare l’eurocentrismo sul tema della razionalità scientifica. Ormai è chiaro. Purtroppo non viene insegnato nemmeno agli scienziati quali sono le molteplici radici del metodo sperimentale, che ha attinto alla cultura araba, alla cultura orientale e da molti punti di vista. A me piace molto anche che la favola di Khusrau arrivi dall’Oriente attraverso un percorso di molti anni. Dall’Oriente e della Grecia arrivavano tradizioni orali molto antiche che ricalcavano delle strutture narrative di grande successo. Secondo me la grande fortuna dei principi di Serendippo, citati anche da Voltaire in Zadig risiede nel fatto che è una struttura narrativa di successo che descrive una attitudine umana profondissima, che è anche quella del metodo indiziario, come l’ha chiamata Carlo Ginzburg.

L’intervista prosegue su Left del 27 maggio 2022 

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