Uno degli elementi centrali delle politiche per la riduzione delle emissioni consiste nel far aumentare il costo dei combustibili fossili. Rendere progressivamente meno conveniente estrarre e bruciare queste fonti energetiche, infatti, è importante per spingere persone e imprese a consumarne di meno e a investire in fonti pulite e in tecnologie più efficienti, in modo da velocizzare il passaggio a pratiche alternative a minore impatto sul clima. Politiche di questo tipo comportano, però, una penalizzazione per i consumatori finali, e rischiano dunque di non ottenere il consenso necessario per essere portate avanti. La chiave sta dunque nel trovare strumenti che facciano seguire all’aumento del prezzo un qualche schema di redistribuzione che protegga la maggioranza meno abbiente della popolazione.
Il punto da cui occorre partire è che, in base agli obiettivi di Parigi del 2015, le emissioni annue nette a livello mondiale devono essere dimezzate entro il 2030 (rispetto al livello del 2010) e azzerate per il 2050. Il secondo dato da considerare è che la crisi climatica è in larga parte dovuta al fatto che i problemi provocati dall’emissione di gas serra – e dal connesso riscaldamento – non sono ancora tenuti sufficientemente in conto nei prezzi che paghiamo per i nostri consumi, spingendoci a consumarne più di quanto sarebbe sostenibile. Da qui l’urgenza di utilizzare anche lo strumento dei prezzi per segnalare la scarsità di una risorsa naturale: la capacità dell’atmosfera di assorbire carbonio.
Evidentemente, però, se i prezzi delle energie fossili salgono, a rimetterci sono le…
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