Negli anni Settanta vi fu una vera esplosione di dibattiti e collettivi. Presero vita così libere e indipendenti esperienze editoriali. Dopo essere transitate sul web, ora le riviste stanno tornando sulla carta. Lo scrittore marchigiano ne parla all’Elba book festival. Eccone un’anticipazione

Sono nato nel mondo della carta stampata e delle riviste, giovanissimo diffusore di Umanità nova, lettore assiduo di Re Nudo ma anche di Ciao 2001, Mucchio selvaggio, Frigidaire di Andrea Pazienza e Tanino Liberatore. Poi sedicenne ne ho fondata una ciclostilata, La scoglionatura, provinciale e underground, che scimmiottava quelle beat americane, di cui credo uscirono solo tre numeri. Ero direttore, redattore capo, tipografo e anche diffusore. La stampavo dopo aver battuto a macchina frenetico sulle matrici, grappettata a dovere, poi la vendevo brevi manu per strada, all’entrata degli istituti scolastici o durante le manifestazioni politiche. Era un modo per esprimersi senza censure, chiunque poteva pubblicare dentro quelle poche pagine poesie, pensieri, articoli sulla legalizzazione delle droghe leggere, sulla repressione politica in Germania e la storia del gruppo della Raf Baader-Meinhof, o su un cantante, oppure su un gruppo musicale nei confronti del quale provava ammirazione.

Erano gli anni Settanta e i nostri preferiti allora erano i Led Zeppelin, Deep Purple, ma più tardi anche John Lurie e i Lounge Lizards, i Tuxedomoon. Quello era il clima che avevamo intorno, molto ricco; non era ancora arrivato il piombo a insanguinare le piazze italiane. Le riviste erano specchio della militanza, ma anche del nostro mondo interiore, lo strumento auto-prodotto più politico e immediato in assoluto, ancora novecentesco. Io amavo più quelle libertarie come la bolognese A/Traverso, nata nel cuore di Radio Alice e del movimento, rispetto alle dottrinarie Critica marxista, Aut Aut o più tardi Metropoli, la rivista dell’Autonomia operaia, che comunque mi sforzavo di leggere, Ombre rosse, che si occupava di cinema, Lambda, che lottava per i diritti degli omosessuali, e non perdevo un numero de Il male, il settimanale satirico, di cui ricordo un numero indimenticabile con una foto di Ugo Tognazzi con le manette ai polsi trascinato da un gruppo di carabinieri, apostrofato falsamente come il grande vecchio delle Brigate Rosse, ovviamente una divertente messinscena, che però con la prima pagina appesa e in bella mostra fuori dalle edicole attirava parecchio l’attenzione.

Più tardi, cominciando a scrivere con una certa assiduità e convinzione, diventai lettore di Linea d’ombra, una delle tante riviste fondate da Goffredo Fofi, l’intellettuale che più di tutti ha creduto a questa forma espressiva, prima con i Quaderni piacentini e successivamente con Lo straniero e Gli asini, con le quali intercettava nuovi talenti e tendenze. Fondai insieme ad alcuni intellettuali di Fermo una rivista indipendente di scrittura, Alias, che prima ancora di diventare il nome dell’inserto culturale del Manifesto, fu il nostro piccolo laboratorio di resistenza culturale in una terra allora ancora molto periferica. L’idea ci venne dal sinonimo in altre parole, ma soprattutto perché era il nomignolo di Bob Dylan, attore non protagonista di quel capolavoro del cinema che è Pat Garret & Billy the Kid di Sam Peckinpah. Di tutti quanti i redattori ero il più giovane e meno attrezzato, forse l’unico veramente irregolare, con studi interrotti e poi ripresi dopo diverse bocciature in Chimica industriale, esperienze lavorative come operaio, venditore di cemento e poi di macchine per scrivere Olivetti, stagionale allo zuccherificio, ma lettore onnivoro e appassionato, e insieme al poeta Adelelmo Ruggieri forse anche l’unico che ha intrapreso più tardi una vera e propria carriera letteraria. La nostra era una rivista elitaria, piena di colti e anche un po’ sterili intellettualismi, di cui condividevo poco, quando chiuse per me fu una liberazione, ma nonostante questo resta comunque una esperienza importante per la mia formazione.

Per quelli della mia generazione le riviste erano i luoghi dell’apprendistato e dell’incontro, di confronto e di elaborazione intellettuale, pagine dove esporsi con le prime opere, ma anche fare gruppo ed elaborare collettivamente un’idea di letteratura e, insieme, un’idea del mondo, spesso marginale, spazi dove alcune minoranze potevano dare forma al loro pensiero. Perché il risultato di quei numeri trimestrali stampati in poche copie, 500, 1000 al massimo, era anche la sintesi di un dibattito che avveniva dentro una piccola comunità, il condensato di un ragionamento a più voci, di scelte estetiche sofferte, scontri anche vivaci su poetiche, proposte di traduzione, recupero di autori rimossi dall’editoria ufficiale, ci prendevamo talmente sul serio che una volta un vecchio professore disse che la nostra sembrava una rivista nata nella vecchia Mitteleuropa. Le Marche costituirono in quegli anni una esperienza anche molto studiata e prolifica, con riviste letterarie di assoluto livello come Lengua, diretta da Gianni D’Elia, Hortus da Enrico De Signoribus, ogni scrittore ne aveva una e intorno alla sua poetica aveva costruito una serie di relazioni complesse con altri scrittori, critici letterari, studiosi. Ne ricordo altre importanti come le romane Prato pagano e Braci, più tardi Scarto minimo, dove si formarono alcuni dei poeti e degli scrittori della generazione che ha preceduto la mia, Lodoli, Albinati, tra gli altri. Altre che mi vengono in mente la fiorentina Salvo imprevisti, quella dei poeti operai Abiti Lavoro dove pubblicava con regolarità Luigi Di Ruscio. Queste riviste erano assolutamente indipendenti e autofinanziate, non avevano quasi mai una regolare distribuzione, molte le trovavi nel circuito delle librerie Feltrinelli, che prima di diventare una catena di vendita commerciale senz’anima dedicavano un angolo ai periodici, oppure venivano vendute durante i reading in giro per l’Italia o spedite per posta agli abbonati.

Allora quelle più autorevoli erano Alfabeta, legata al Gruppo ’63, ancora molto influente nell’editoria italiana, e “Nuovi Argomenti”, romanocentrica e mondadoriana, con la quale più tardi ho collaborato a lungo quando era caporedattore Lorenzo Pavolini, ma queste erano riviste più istituzionali, anche un territorio dove si affermavano nuovi scrittori, che poi da quegli apprendistati arrivavano al libro d’esordio e successivamente iniziavano una vera e propria carriera letteraria.

Ho sempre visto nelle riviste un prezioso spazio di libertà, uno strumento dal basso indispensabile, minoritario ma proprio in virtù di questo portatore di un particolare e unico punto di vista, anche geografico, e tutte le volte che ho potuto ho collaborato con alcune di loro spesso a titolo gratuito, un’altra caratteristica fondamentale di quelle degli anni 70, la gratuità generosa della militanza. Negli anni ho continuato a scrivere parecchio su Diario, E, L’Indice, adesso Millennium del Fatto quotidiano, e quando le riviste si sono spostate sul web sono stato tra i primi promotori de Le parole e le cose, ho scritto saltuariamente su Nazione indiana, seguo minima et moralia e Doppiozero, spesso alcuni dei miei libri nascono da pezzi pensati per le riviste, dai racconti dal vero, come l’ultimo sul fine vita che ho affidato a Sotto il vulcano, la nuova rivista diretta da Marino Sinibaldi edita da Feltrinelli, un numero sui Confini curato da Andrea Bajani, o un pezzo per lo speciale Pasolini uscito su Achab. Forse dopo anni di rete, la carta sta tornando davvero.

L’articolo è tratto da Left del 15-21 luglio 2022 

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