Dopo l’attacco di Hamas in Israele, i palestinesi rischiano di essere confusi dai media con i terroristi assassini. Per fare chiarezza sulla terribile situazione in cui vive un intero popolo, ecco un reportage del 22 agosto 2022 scritto per Left da Gerusalemme Est

Questo reportage del 22 agosto 2022 dal quartiere di Gerusalemme Est fa luce sulla condizione in cui vivono gli abitanti, tra le tensioni esplose per gli sfratti che li minacciano.

«Da grande voglio fare l’architetto. Voglio ristrutturare questa casa e costruirne un’altra». Ali Qanibi ha 14 anni e parla seduto sul letto di una camera di pochi metri quadri che per sette mesi è stata la prigione dove ha scontato gli arresti domiciliari. Ali abita con i suoi genitori e quattro fratelli, di cui uno disabile, a Sheikh Jarrah, quartiere palestinese di Gerusalemme Est. 
Visto da lontano questo quartiere è una distesa di case fatiscenti, eppure sulla proprietà di questi metri quadri si gioca da anni una partita che va ben oltre una banale disputa immobiliare. Da un lato, famiglie palestinesi che abitano quelle case da 50 anni, e dall’altro lato, Nahalat Shimon, un’organizzazione radicale religiosa di coloni israeliani che le vuole sfrattare sostenendo che la proprietà sia di famiglie ebree che erano lì prima del 1948.

Il quartiere è militarizzato dal giorno in cui, lo scorso febbraio, Itamar Ben Gvir, parlamentare di estrema destra sionista, ha allestito un suo ufficio improvvisato sotto una tenda con la bandiera di Israele, nel giardino di una delle 25 famiglie sotto sfratto. Ben Gvir ha accusato la polizia di non aver reagito a presunti attacchi incendiari in una casa di coloni a Sheikh Jarrah, a seguito dei quali gruppi di coloni hanno sparato e lanciato sassi contro le case palestinesi.

Ali Qanibi, 14 anni, abitante del quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, a lungo tenuto agli arresti domiciliari dalle autorità israeliane

«Non sono stato io a bruciare la sua macchina!» dice Ali guardando fuori dalla finestra che è stata la sua unica apertura sul mondo per molti mesi. «Il colono mi fotografava mentre guardavo fuori, mi arrabbiavo ma non potevo fare niente, alla fine chiudevo la finestra e rientravo. Mi mancava l’aria». L’unico sollievo per Ali, durante il periodo dei domiciliari, erano i suoi quattro amici, residenti nel quartiere. Oggi sono tutti in carcere denunciati dallo stesso colono, vicino di casa. «A Sheik Jarrah le famiglie sono sottoposte a una grande pressione psicologica», aggiunge Rateeb, abitante palestinese del quartiere, «e i nostri figli crescono sotto la costante minaccia dello sfratto».

Una realtà che produce tensione, contro la quale provano a opporsi anche alcuni attivisti ebrei, che manifestano a fianco dei residenti palestinesi ogni venerdì mattina. Shula Treves è una giovane studentessa ebrea e ci guida la mattina successiva in manifestazione. «È ovvio che è una questione politica», spiega. «Non si parla veramente di chi fosse proprietario della casa ottant’anni fa, ma si sta decidendo cosa ci sarà a Gerusalemme nei prossimi anni: se i quartieri palestinesi potranno a rimanere tali o se ci vivranno sempre più ebrei per impedire che Gerusalemme venga rivendicata come capitale anche dai palestinesi». La tensione durante le manifestazioni è aumentata la scorsa primavera, dopo che la Corte suprema israeliana ha congelato gli espropri di alcune famiglie, in attesa di una ulteriore verifica sulla validità dei certificati di proprietà.

Un momento di una manifestazione per i diritti del popolo palestinese

Da lati opposti di una strada sventolano bandiere palestinesi e israeliane. Da una parte, gli attivisti palestinesi ed ebrei, dall’altra, i coloni e i simpatizzanti di estrema destra che urlano ai manifestanti ebrei: «Terroristi! Voi state con i terroristi!». In mezzo a una distesa di bandiere israeliane, si legge un cartello: «Corte suprema, cancro di Israele».

Jeff Halper partecipa a manifestazioni come questa da tutta la vita. Ebreo israeliano di origini americane è un attivista politico co-fondatore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case palestinesi. Nel 2006, venne nominato al Nobel per la Pace, insieme a Ghassan Andoni, intellettuale palestinese. «Vogliamo che i palestinesi sappiano che ci sono ebrei che vogliono la coesistenza», spiega Halper. «Da quando è iniziata l’occupazione nel 1967 – aggiunge – gli israeliani non possono andare nelle città palestinesi e viceversa, quindi qualsiasi giovane palestinese sotto i 50 anni non conosce gli ebrei. Gli unici ebrei che hanno mai visto sono o i coloni, che li attaccano, o i soldati, che pure li aggrediscono in modo violento».

Jeff Halper, attivista politico co-fondatore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case palestinesi

Mentre procede la manifestazione ci dicono che Alì è stato nuovamente arrestato. La madre sulla soglia di casa è disperata: «La polizia è venuta a prenderlo nella notte, lo hanno bendato, ammanettato e lo hanno portato via. Ho chiesto “dove lo portate?” e mi hanno risposto “nella Camera numero 4 per l’interrogatorio!”, ma non hanno voluto dirmi perché».
Ali mostra i lividi sui polsi, legati da delle fascette di plastica, un bozzo sulla testa e un livido in faccia. «Mi hanno tenuto nella stanza degli interrogatori e ogni tanto qualcuno veniva a picchiarmi. Avevo la faccia contro il muro e mi hanno dato un calcio nel fianco. Ho chiesto perché ero stato arrestato e mi hanno detto “per il caso della macchina”. Il giudice in tribunale ha riconosciuto che il caso era lo stesso (per cui già era stato arrestato, ndr) e non c’erano prove nuove e mi ha lasciato andare, con altri tre giorni di domiciliari».

Le modalità di arresto di Alì non sono un caso isolato. Secondo l’associazione Defence for children international, tre minori palestinesi su quattro vengono picchiati dalle forze armate durante la detenzione. Questa associazione palestinese per i diritti dei minori è una delle sei ong dichiarate “organizzazioni terroriste” dal governo israeliano ad ottobre 2021, quando sedici difensori dei diritti umani sono stati incarcerati. Contro questa decisione, a fine febbraio scorso, si è pronunciato l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite (Ohchr) che esprime preoccupazione per «gli sforzi intrapresi per mettere a tacere i difensori dei diritti umani dei palestinesi nei Territori Occupati», chiedendo al governo di Tel Aviv di archiviare le accuse contro le ong per assenza di prove concrete.

Sempre le Nazioni Unite denunciano che da gennaio a giugno 2022, esercito e polizia israeliani hanno ucciso oltre 60 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, il 46% in più rispetto alla prima metà dello scorso anno. Tra questi i responsabili degli attentati compiuti in Israele tra marzo e maggio che hanno causato 18 morti.

«I giovani ebrei e palestinesi crescono senza conoscersi, ma nell’educazione alla violenza, cosa lasciamo dietro di noi?» si chiede Avner Gvaryahu, ex sergente di una squadra di cecchini, membro di Breaking the silence, una ong di soldati israeliani che hanno servito nell’esercito nei Territori occupati, partecipando ad azioni militari che li hanno segnati profondamente. «Ci lasciamo dietro più odio e più rabbia», dice Avner. «Dopo molti anni di servizio posso dire che l’occupazione non riguarda la sicurezza di Israele, ma il controllo dell’intera popolazione civile palestinese. Non vuol dire che non ci siano minacce per i cittadini israeliani, ma è una menzogna pensare che il nostro modo di agire serva a migliorare la sicurezza in Israele. È il contrario. Mantenere un controllo militare indiscriminato su tutta una popolazione civile e l’espansione delle colonie, sono attualmente le più grandi minacce allo stato di Israele».

«Molte organizzazioni umanitarie e il Relatore speciale delle Nazione unite lo definiscono un regime di apartheid», spiega Jeff Halper. «Lo hanno dichiarato lo scorso anno la ong israeliana B’Tselem e Human rights watch e quest’anno anche il report di Amnesty international, che estende l’accusa di apartheid a tutto il territorio di Israele. L’apartheid è necessario per mantenere uno Stato ebraico in un territorio in cui la maggioranza della popolazione è palestinese», conclude. Le reazioni governative al report di Amnesty sono state molto dure, accusato di antisemitismo e di aver dato voce ad associazioni terroriste. Contro gli attacchi subiti da Amnesty, quindici ong israeliane hanno firmato una lettera di solidarietà e preoccupazione per i continui attacchi governativi alle associazioni per i diritti umani.


Il 22 agosto alle ore 23.15 è andato in onda su Rai Tre il reportage “Terra promessa” di Chiara Avesani e Matteo Delbò
, l’ultima puntata del programma “Il fattore umano”, una serie di racconti giornalistici dedicati alle violazioni dei diritti umani nel mondo. “Terra Promessa” racconta la difficile convivenza tra palestinesi e coloni israeliani in alcune zone come Hebron o Gerusalemme e mostra le due facce di questa che è una “Terra promessa” per tutti, sia per gli arabi che per gli ebrei. Da un lato gli israeliani colpiti a marzo scorso da una nuova ondata di attentati che hanno determinato il rafforzamento delle misure antiterrorismo, dall’altro i palestinesi i cui diritti troppo spesso non vengono rispettati proprio in nome della sicurezza del Paese.

* In alto e nell’articolo, alcune foto di Matteo Delbò

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