Presidenzialismo, leva militare obbligatoria, aiuti alle imprese e non ai lavoratori, blocco navale contro i migranti, attacco alla autodeterminazione delle donne…È quanto “promettono” le destre. Giorgia Meloni è stata applaudita al meeting di Comunione e liberazione come se fosse un ritorno a casa. Il rischio che alle elezioni del 25 settembre vinca una destra clerico affarista è reale. I sondaggi parlano di una distanza siderale fra centrodestra e centrosinistra. Cosa fare? Chiedo di getto a Susanna Camusso, ex segretaria generale della Cgil che si candida con il Pd (al Senato collegio Campania 2 ndr).
Lei resta un attimo in silenzio. E poi con la calma di chi ha fatto molte battaglie sociali: «Guardi…io però non la prenderei così».
Camusso, non vede rischi in caso di un governo di destra-destra guidato da Fratelli d’Italia?
Aspetterei il voto degli italiani. Mi sembra più serio. Non vorrei far passare l’idea che il voto sia insignificante, che non c’è niente da fare. Quella che ci aspetta è una stagione assai difficile per questioni molto concrete come il prezzo dell’energia, il caro bollette ecc. Perciò proprio non darei per scontata la narrazione corrente che finisce per avvantaggiare la logica delle profezie che si auto avverano.
Il suo punto di vista?
C’è una partita da giocare in un Paese che è molto preoccupato. C’è un’indubbia condizione di difficoltà e senso di solitudine, in particolare nel mondo del lavoro. Noi dobbiamo impegnarci per costruire una apertura di prospettiva. Questa è la funzione della politica.
Partiamo dal lavoro. I dati ci dicono che donne e giovani sono stati i più penalizzati dalla crisi dovuta alla pandemia, anche perché avevano contratti a tempo determinato, part time involontari, lavoro mal retribuito e a nero. Come invertire questa tendenza che ha radici lontane?
Bisogna contrastare la precarietà, per questo continuerò a battermi. Dobbiamo costruire prospettive per i giovani, ma anche per le lavoratrici che, giovani o meno, sono a loro volta estremamente colpite. Vanno costruiti percorsi solidi, ben retribuiti, di lavoro dignitoso.
Da segretaria della Cgil propose la Carta dei diritti che cancellava il Jobs act.
Su questo abbiamo un bagaglio di esperienze molto significative. Dobbiamo contrastare la precarietà ma anche l’idea che si possa non pagare il lavoro o pagarlo poco. E se sarò eletta vorrei ripartire proprio dal testo della Carta dei diritti e da quelle proposte.
Le destre e Italia Viva vogliono abolire il reddito di cittadinanza perché, per dirla con Rosato: «Disincentiva i giovani dal cercare lavoro», che ne pensa?
È una costruzione del tutto inventata per continuare a mantenere l’idea che i giovani possono essere pagati poco e male. È inaccettabile. Danneggia i giovani e non fa bene all’Italia. Un Paese non lo costruisci sulla precarietà e sul lavoro a basso costo. Qui entra in campo la contrattazione, ma fondamentale è il Parlamento che è chiamato a correggere il disastro di deregolamentazione che è stato costruito in questi ultimi anni e a ricostruire certezze, in particolare per i giovani e le donne.
È sufficiente?
Ovviamente per cambiare il quadro bisogna fare delle scelte: cosa si pensa di fare riguardo all’energia? Cosa si pensa di fare per mettere in opera un Pnrr che comporti piani di politica industriale? Viviamo una stagione in cui si potrebbero fare cose molto importanti. Invece vedo molta deresponsabilizzazione: c’è chi dice diamo soldi alle imprese come se questo risolvesse i problemi. Come è noto non è così. Servono precisi orientamenti: bisogna decidere che la lotta al cambiamento climatico è una partita urgente, drammaticamente urgente. E che ogni rinvio costa alle persone, costa al Paese, esattamente come costa mantenere i giovani in precarietà.
La transizione ecologica può portare alla creazione di nuovi posti di lavoro? In che modo?
Detto in estrema sintesi se davvero vogliamo fermare il climate change in primis dobbiamo puntare sulle energie rinnovabili. Il che significa occuparsi di cosa produce energia ma anche di reti di alimentazione, di infrastrutture, di accesso e di riconversione della rete perché sia adatta a supportare le rinnovabili come fonte primaria di energia. Questo è tutto lavoro. Anche in prospettiva, non solo sul breve periodo.
E poi?
E poi c’è poi tutto il tema dell’economia circolare. Il che significa non puntare ad aumentare i beni consumabili oggi, ma pensare anche a come ridurre la dimensione di rifiuti e dei prodotti che diventano obsoleti e non hanno più la possibilità di essere riutilizzati. Tutto questo implica ricerca, rapporto con i territori, prospettive. Rinnovabili ed economia circolare sono due grandi praterie di politiche industriali che si potrebbero percorrere.
Non rappresentano il vecchio, come qualcuno dice?
Al contrario sono una straordinaria opportunità di favorire lo sviluppo del territorio senza danneggiarlo né esaurirne le risorse ma anzi contribuendo a curarlo. Potrebbero anche essere un indirizzo importante del digitale. Non parlo della digitalizzazione come elemento astratto, figlio esclusivamente delle multinazionali, ma della digitalizzazione come servizio alle esigenze di trasformazione delle politiche industriali.
Veniamo a un tema chiave: la formazione. Tajani ha parlato di ulteriori aiuti alle scuole paritarie e incentivi per la scuola- lavoro, d’accordo con Meloni che punta sulle scuole professionali e chiede di accorciare a 4 anni le superiori. Sul fronte opposto Letta propone l’obbligo scolastico fin dalla scuola dell’infanzia e Fratoianni parla di scuola pubblica gratuita compresa l’università. Quale è il suo punto di vista?
Io credo che la proposta della scuola pubblica gratuita rappresenti una traduzione necessaria dei principi costituzionali. Di questi tempi bisogna ribadire ogni giorno che è bene attuare la Carta in tutti i suoi aspetti. Si chiama diritto allo studio. Vuol dire considerare la Costituzione come un riferimento per ridurre le disuguaglianze. Invece di concentrarsi sulla retorica della meritocrazia, spesso usata per giustificare queste diseguaglianze, dovremmo ricominciare, in particolar modo sull’educazione, a rivendicarne l’universalità. Dobbiamo ricostruire quel terreno minimo di opportunità e di cittadinanza che l’istruzione rappresenta. Da questo punto di vista nella coalizione di centrosinistra la proposta del Pd e quella di Sinistra italiana delineano una presa di posizione netta. Io credo che sia molto importante ampliare l’obbligo anche alla scuola dell’infanzia dando risposta al diritto dei bambini e delle bambine ad avere accesso all’insieme del percorso di istruzione. Mettere mano a un sistema di istruzione come diritto obbligatorio è un investimento, non è un costo. Di pari passo dobbiamo dare agli insegnanti una retribuzione all’altezza dell’Europa. Impoverire il corpo insegnante – che ha sempre avuto una funzione fondamentale – è servito a svalorizzare la scuola. Detto questo io penso anche che il diritto allo studio debba essere garantito attraverso l’istruzione pubblica. Con ciò non vieterei nulla a nessuno.
Guardando a quel che accade in altri Paesi europei, per promuovere il lavoro stabile in Spagna sono stati disincentivati contratti a tempo determinato. Intervenire concretamente si può, non è utopistico?
No, non è utopistico. Quella attuata in Spagna è una di quelle riforme che non comportano neanche grandi costi per lo Stato. Non richiede particolari risorse, richiede una decisone politica, una scelta politica di privilegiare e di premiare il lavoro stabile rispetto al lavoro precario. L’esperienza in Spagna sta già dando risultati importanti in termini di stabilizzazione del lavoro. Non ha prodotto quelle catastrofi sul piano dell’occupazione che tutti preconizzano ogni volta che cerchi di cambiare regole del mercato del lavoro. Era una strada aperta anche nel nostro Paese, ma poi è stato deciso di de-regolarizzare in tutt’altro modo. È il sintomo della debolezza del nostro sistema produttivo che non investe sulla qualità del lavoro e sulla possibilità di spendere maggiori competenze e maggiore impegno. Ci vedo una forma autodistruttiva di un sistema che invece vorrebbe definirsi competitivo rispetto al resto dell’Europa.
In questa campagna elettorale i partiti di destra fanno a gara a proporre la flat tax, ciascuno con percentuali diverse. Anche i liberali di centro promettono di abbassare le tasse. Non sarebbe più efficace e equo fare una riforma fiscale secondo un principio di progressività e offrire più servizi di qualità?
Ho sempre pensato che ci fosse un inganno dietro all’idea per cui basterebbero meno tasse per fare felice il mondo. In quel modo fai felice alcuni (tendenzialmente una minoranza) e pesi su chi ha più difficoltà e meno risposte in termini di servizi pubblici in termini di benefici che derivano da una struttura pubblica organizzata. Noi abbiamo bisogno esattamente dell’opposto; abbiamo bisogno di più cura, come ci ha dimostrato la pandemia, di una maggiore risposta di servizi. Non si può far saltare il fondamentale patto di cittadinanza in virtù del quale al pagamento delle tasse corrispondono l’erogazione dei servizi e una struttura pubblica efficace del Paese. Non si può distruggere perché così si incrementano le disuguaglianze a svantaggio dei più deboli. Da questo punto di vista io penso che si debba tornare ai fondamentali. E l’elemento fondamentale che ci offre la nostra Costituzione è la progressività. Ma dobbiamo anche ricondurre il sistema ad unità perché il sistema è oggi molto frazionato, a seconda delle professioni, delle collocazioni ecc.
È il risultato delle politiche dei bonus?
È anche per l’effetto di una certa modalità di governo che ha caratterizzato gli ultimi anni, fatta di bonus di de-contribuzioni. Un giornalista tedesco mi disse tempo fa: da noi ogni cittadino sa esattamente cosa l’aspetta sul piano fiscale, le regole sono certe, sono note, ognuno ci si può misurare. In Italia non accade perché progressivamente è stata costruita giungla. Io penso che serva un sistema progressivo e unitario in modo che tutti i cittadini sappiano a cosa vanno incontro. Ma deve essere anche un sistema che premia il lavoro. Non si può dire alla classe lavoratrice che il lavoro è fondamentale e poi penalizzarlo dal punto di vista delle scelte e della redistribuzione della ricchezza nel Paese.
Da ultimo, un questione prioritaria: fermare la violenza contro le donne. E, aggiungerei, anche di chi ci marcia. Che il video della stupro subito da una donna a Piacenza sia stato rilanciato da alcune testate e rilanciato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni è estremamente grave. Lei è sempre stata in prima linea su questi temi che ne pensa?
Per prima cosa vorrei esprimere tutti gli abbracci possibili a questa signora che è stata colpita anche da una seconda violenza esercitata nei suoi confronti sia dalla testata che ha deciso di mettere in rete quel video sia da una leader politica in campagna elettorale e che lo ha utilizzato a fini elettorali. Tutto questo è di una violenza inaudita. Vedo anche un’incapacità di ascolto straordinaria perché se c’è un tema su cui il movimento delle donne e tante associazioni hanno lavorato moltissimo è proprio quello della vittimizzazione secondaria. Purtroppo il modo in cui viene trattata e raccontata la violenza sulle donne determina una nuova vittimizzazione, che è l’opposto di quello di cui ci sarebbe bisogno. L’argomentazione usata dalla Meloni è di una debolezza infinita: non c’è bisogno di un video per denunciare. Se vuoi denunciare la violenza contro le donne ben venga ma lo fai innanzitutto difendendo le vittime, non aggredendole ulteriormente. E poi chiamando le cose con il loro nome.
La destra xenofoba addita i migranti. I dati Istat dicono che oltre il 67 per centro degli stupri avviene in famiglia al netto di quelli compiuti da ex e conoscenti. Per chiudere su un tema così importante, un suo commento?
La violenza maschile contro le donne non è “razzializzabile”. L’operazione di indicare il nemico esterno nasconde questa responsabilità maschile. Basta guardare all’incremento dei femminicidi e che caratteristiche hanno. Ho notato, devo dire un abisso di cinismo e di disinvoltura che non mi sarei mai aspettata, ancor meno da chi tiene a specificare ogni giorno di essere donna. Credo che sia preoccupante per il clima sociale prima ancora che politico che si vuole produrre nel Paese e mi viene da pensare che aveva ragione quella signora (Simone de Beauvoir ndr) che diceva “donne si diventa non si nasce”.