L’inflazione ci sta riportando velocemente indietro, con pericoli antichi e nuovi al tempo stesso. Il debito pubblico italiano è esploso a partire dagli anni Ottanta, quando è diventato insostenibile il peso degli interessi da pagare per collocarlo. In pochi anni si è passati da un rapporto debito-Pil del 50% ad uno del 120%, sulla spinta del debito secondario. Tali interessi dovevano essere pagati dal Tesoro italiano per reggere la concorrenza di altri titoli di Stato, a cominciare da quelli degli Stati Uniti che beneficiavano della copertura del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale.
Oggi sta riproponendosi una situazione in parte simile. I tassi di interesse delle banche centrali sono saliti e i rendimenti dei titoli di Stato dei vari Paesi sono cresciuti per far fronte al loro deprezzamento, in parte dettato dall’inflazione. I Bund tedeschi hanno perso in pochi mesi il 18% del loro valore, i Btp italiani il 20% e questo ha spinto i rendimenti al rialzo. In tale ottica lo spread non cresce perché sia Italia sia Germania sono costrette ad alzare i tassi e dunque non sarà lo spread a determinare il quadro di riferimento, anche in termini politici. Pesa invece, come negli anni Ottanta, la concorrenza dei titoli di Stato americani che rendono, sul decennale, il 4,5% e dunque sono molto appetibili. Ancora una volta, come allora, il Tesoro degli Stati Uniti può permettersi una simile operazione grazie alla forza del dollaro che sta schiacciando l’euro a 0,96 e sempre più giù.
In altre parole, la politica economica degli Stati Uniti viene costruita, come in passato, scommettendo sulla debolezza degli altri Paesi e sull’aspettativa che la Cina non abbia intenzione, almeno nel breve periodo, di sganciarsi dal dollaro. Solo se l’Europa avesse una vera credibilità internazionale questa pesante rendita di posizione si indebolirebbe; in caso contrario ci troveremo a fare i conti con un nuovo decollo del debito soltanto per gli interessi da pagare.
Dalla Nadef, la nota integrativa di politica economica presentata dal governo italiano, emerge, tra gli altri, un dato chiarissimo. La decisione della Bce di bloccare gli acquisti dei titoli del debito pubblico, a cominciare da quello italiano, ha generato già nel 2022 un conto interessi da pagare per lo Stato italiano di 76 miliardi di euro che per il prossimo anno, con l’ulteriore impennata dei tassi al di sopra del 4,5% per i decennali, comporterà un’ulteriore importante crescita per tale voce di spesa pubblica, nonostante le scadenze medio lunghe del nostro debito.
In estrema sintesi, è probabile che si torni a pagare circa 80-90 miliardi di euro di interessi, resi necessari per far fronte al collocamento del debito in scadenza nel 2023 pari a 350 miliardi e di quello nuovo per altri 100 miliardi sempre nel 2023. Dunque la scelta della Bce costringe lo Stato italiano a pagare una trentina di miliardi in più rispetto alla fase degli acquisti operati dalla stessa Bce. Questa decisione, peraltro, avrà ulteriori effetti negativi perché priverà la Banca d’Italia, e quindi in larga misura lo Stato, degli interessi che proprio l’acquisto dei titoli del debito italiano gli garantiva – operando Bankitalia come acquirente con le risorse della Bce – e perché il maggior esborso da parte dello Stato per gli interessi non si tradurrà in alcun modo in un incremento del reddito nazionale visto l’esiguo numero di risparmiatori italiani ancora coinvolti nella sottoscrizione del debito del nostro Paese.
Per essere ancora più chiari, la scelta della Bce di smettere di comprare debito italiano produrrà un forte incremento della spesa pubblica improduttiva – quella per interessi – sottraendo 30 forse anche quaranta miliardi di euro in più rispetto al 2021 ad altre voci ben più rilevanti come sanità e sociale; in pratica un inutile raddoppio della dimensione della legge di Bilancio.
Ma perché la Bce ha cessato gli acquisti di debito? Le risposte canoniche sono, appunto, le solite: il debito pubblico non può crescere sempre, soprattutto in una fase di inflazione che impone invece un rialzo dei tassi e una contrazione della liquidità. Mi sembrano risposte ormai davvero fuori dal tempo che stiamo vivendo. L’inflazione attuale dipende dalla speculazione finanziaria che non si batte riducendo la liquidità, con effetti devastanti su economie già piegate e su debiti pubblici nazionali sempre più indispensabili per contrastare il crescente impoverimento di fasce estese di popolazione. La strada per battere la finanziarizzazione che genera inflazione è quella di sfoltire l’abnorme pletora di prodotti dell’ingegneria finanziaria che hanno reso i prezzi una variabile impazzita e in larga misura sganciata dall’economia reale. Introdurre un nuovo rigore monetarista, limitando l’azione della Banca centrale europea vuol dire mettere a repentaglio la tenuta sociale di molti Paesi e non centrare l’obiettivo di bloccare l’inflazione finanziaria in grado ormai di procedere anche senza l’allagamento di liquidità degli anni passati, data l’enorme mole di operazioni “allo scoperto”.
Se l’Italia dovrà affrontare il 2023 senza la possibilità di ricorrere al debito per effetto della scelta della Bce, è molto probabile che sarà priva di risorse per coprire almeno il 40% delle misure necessarie ad affrontare l’esplosione delle bollette e a tentare di adeguare le retribuzioni all’inflazione. Il governo della moneta, avrebbero detto alcuni teorici del passato, non può non avere una forte dimensione politica.
* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia