Finalmente Ahmad (nome di fantasia) ha qualche giorno di ferie e passeggia tra le colline toscane. Il lavoro in cucina, lo stress e la stanchezza sono sostituiti dall’aria fresca, riposo e ricordi. Indica la ripida discesa al lato del sentiero dove sta camminando. Quelle stradine sterrate di campagna, quei sentieri nascosti nel bosco. Sembra di vedere il suo amico esitante, mentre Ahmad lo esorta a scappare dalla polizia. Sembra di sentire il fiatone e i passi stanchi tra le foglie secche nella ripida salita. «Sono passato in tante strade come queste per arrivare in Italia», racconta. Sembra di toccare la frontiera, come se si fosse impressa nella sua pelle. «Non possiamo dimenticare i respingimenti che abbiamo subito. Il mio corpo parla, ne sente ancora le conseguenze, perciò anche non volendo, i miei pensieri spesso ritornano a quei momenti» dice Ahmad, arrivato quasi un anno fa in Italia passando dalla cosiddetta rotta balcanica.
«Stiamo registrando un incremento della violenza al confine tra Serbia e Ungheria: braccia e gambe rotte, ferite e umiliazioni di vario tipo. Rasature forzate, persone costrette a camminare scalze. Ci sono stati raccontati da alcune persone respinte episodi in cui le autorità gli avrebbero versato in testa le bottiglie d’acqua o i succhi di frutta trovati nei loro zaini» spiega Sara Ristić di KlikAktiv (Centro per lo sviluppo delle politiche sociali), organizzazione serba fondata a Belgrado nel 2014. La Serbia è geograficamente strategica nel transito per l’Unione europea, in quanto confinante con ben tre Paesi membri; Croazia, Ungheria e Romania. Negli ultimi mesi le persone di passaggio in Serbia sono aumentate, in particolare nel nord del Paese da dove tentano di raggiungere l’Unione europea, attraversando la frontiera con l’Ungheria. E con esse anche la brutalità della polizia ungherese. «Le violenze perpetrate durante i pushback (respingimenti illegali) sono sempre più gravi. Fino a pochi mesi fa le autorità ungheresi picchiavano le persone in cerca di asilo, gli rubavano i telefoni e i soldi e li rimandavano indietro. Solo questo, senza altre umiliazioni, anche se non si può mai dire “solo”». Ma lo ripete più volte, assicurandosi di far passare bene il concetto: non c’è mai un “solo”. I pushback sono una pratica illegale e una violazione del diritto internazionale poiché non rispettano la regola generale del non-refoulement (non respingimento) prevista dalla Convenzione di Ginevra (Art. 32 e 33).
Con o senza abuso fisico, i pushback sono quindi già di per sé una forma di violenza, negando la possibilità di chiedere asilo. I respingimenti illegali ai confini dell’Unione europea sono stati adottati come metodo sistematico fin dalla chiusura del corridoio umanitario nel 2016 e vengono denunciati da anni da associazioni come KlikAktiv o Border violence report network. «Le politiche di esternalizzazione e securitizzazione portate avanti dall’Ue causano una forte pressione sulla Serbia, Bosnia e Grecia, rendendo il sistema di asilo troppo lungo e inaccessibile. Essendo impossibile entrare per vie legali, l’Ue dà molto potere ai contrabbandieri (smugglers) a cui le persone ricorrono per poter attraversare il confine» commenta Ristić.
Secondo Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) gli ingressi “irregolari” nei Balcani occidentali sono aumentati del 190% tra gennaio e agosto del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno passato, contando 86.581 arrivi. Numeri simili al 2016, immediatamente dopo la chiusura definitiva delle frontiere lungo la rotta. Giusto un anno prima, nel 2015, l’Ungheria di Viktor Orban aveva dispiegato una recinzione di 153 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Serbia e la Croazia. Ed è proprio lungo quella recinzione, nella parte serba, che oggi, anni dopo, continuano a sorgere nuovi accampamenti informali in edifici abbandonati o nei boschi, mentre i campi istituzionali sono sempre più sovraffollati.
«A Sombor, che è un campo pensato per circa 400 persone, ce ne sono circa 850; a Subotica, che è un piccolo campo per 160 persone, oggi secondo le stime ce ne sono 600. Lo stesso vale per il campo di Kikinda, vicino al sovraffollamento» racconta Tomás D’Amico, di No name kitchen, ong attiva al confine nord e ovest della Serbia, oltre che in altri punti della rotta balcanica e mediterranea. Anche i dati dell’Unhcr confermano il sovraffollamento in Serbia: 16.723 arrivi sono stati registrati nei campi istituzionali.
Numeri, numeri, numeri: un’ossessione per i numeri che il più delle volte è strumentale a giustificare le politiche di securitizzazione dei confini, disumanizzando chi li attraversa. Ma che in questo caso, invece, le mettono invece in discussione. Dopo anni di militarizzazione delle frontiere, le stime sembrano raggiungere quelle del 2016. «La maggior parte delle persone vengono dall’Afghanistan e dalla Siria, ma non solo. Recentemente la Turchia ha iniziato le deportazioni verso la Siria, perciò molti siriani che non si sentivano più sicuri in Turchia hanno deciso di intraprendere la Rotta, piuttosto che passare per il mar Mediterraneo dove raramente vengono soccorsi e i pushback della polizia greca sono frequenti» spiega Ristić. Anche le persone afgane non sono al sicuro in Turchia, che non ha interrotto le deportazioni in Afghanistan nemmeno a seguito dell’instaurazione del governo talebano. «Ci sono molti siriani, afgani, pakistani. E poi ci sono persone provenienti dall’India, dal Bangladesh, dalla Palestina, dall’Iran, dall’Iraq… anche dalla Somalia, dal Sudan e dal Maghreb africano, soprattutto Marocco e Tunisia» afferma D’Amico.
Origini e motivazioni diverse, ma ognuno di loro rischia la vita per superare i confini e raggiungere l’Unione europea. Racconta Ristić, in merito al passaggio verso l’Ungheria: «Le persone si aggrappano alla recinzione, ma quando la polizia colpisce volontariamente la rete con l’auto, cadono e si graffiano le mani e le braccia, facendosi male». Confini che feriscono, non solo fisicamente, chi le attraversa. Con l’unico risultato di imprimere ulteriore trauma su traumi già vissuti.
«Non si tratta solo dei sentimenti legati ai ricordi dei pushback; è anche un fatto fisico. A volte quando fa freddo sento dolore alla schiena… ed è ovvio dato che le autorità rumene mi sono saltate addosso per ore» dice Ahmad, guardando il sentiero davanti a lui. «Prova a immaginare…» smette di camminare, si ferma in piedi e continua: «Immagina 14 persone, il più piccolo forse di 12 anni, stese per terra nel fango, in inverno, senza t-shirt, senza scarpe, alcuni senza pantaloni». Ahmad sa bene l’inglese, eppure parla solo con verbi al presente: «I poliziotti rumeni ci saltano sulla schiena e se gridi per il dolore iniziano a saltare più forte. Si stanno prendendo gioco di te e tu non puoi fare nulla, sei come uno schiavo… qualsiasi cosa dicano devi farla perché non hai altro modo, perché se non la fai ti picchiano più forte e ti umiliano». Così Ahmad non può opporsi mentre le autorità rumene lo costringono a fare flessioni al suolo, a turni con gli altri presenti. Né può dire nulla quando alcune persone del gruppo vengono costrette a mangiare del maiale, se pur musulmane, o per l’appunto, perchè musulmane.
Immagini dal sito di No name kitchen
Ahmad ricorda bene: era gennaio 2021 quando ha subito uno dei respingimenti più violenti negli anni di viaggio dal Pakistan, al confine tra Serbia e Romania. Comportamenti disumanizzanti di questo tipo si verificano anche un anno dopo, al confine ungherese. «Sono pratiche denigratorie, forse più mortificanti delle percosse fisiche, perché ti annullano come persona, come essere umano» dice Ristić, mentre racconta di un recente pushback particolarmente violento. Una croce rasata in testa a un giovane ragazzo marocchino, mentre le autorità ungheresi ridono. Pratiche islamofobiche che ricordano quelle croci rosse impresse sempre sulle teste di persone in cerca di asilo in Croazia e respinte in Bosnia Erzegovina nel 2020. Anno dopo anno, le violenze sono costitutive dei confini stessi.
«Ci siamo resi conto che quando le persone ci parlano di “polizia buona” intendono la polizia che li picchia “soltanto” senza ulteriori umiliazioni», afferma Ristić. Andare al game (come le persone migranti chiamano il tentativo di raggiungere l’Europa) sembra naturalmente dover comportare la necessità di assumersi il rischio della violenza fisica e psicologica, se non della morte. «A volte finisci per pensare che i pushback siano un aspetto normale del percorso, però… no. No. I respingimenti non sono normali, sono illegali» dice Ahmad con sguardo deciso. Tale normalizzazione risponde alla sistematicità di tali pratiche fin dalla chiusura della rotta balcanica. «La violenza più comune riferita dai minori, è quella fisica da parte degli agenti della polizia di frontiera (…) I bambini intervistati descrivono di essere stati denudati, costretti a stare al freddo, a subire scosse elettriche e percosse con bastoni, che hanno provocato gravi lesioni fisiche come fratture o gravi contusioni» si legge nel recente report di Save the Children.
Sono molti i minori non accompagnati che cercano di raggiungere l’Ue e sembrano essere in aumento, così come i nuclei familiari in arrivo. «Ora stiamo vedendo molte famiglie che arrivano qui, molte con bambini tra i 3 e i 10 anni. In alcuni casi abbiamo visto donne che viaggiano da sole» spiega D’Amico. Anche la testimonianza di Gian Andrea Franchi, dell’associazione Linea d’ombra conferma un incremento di famiglie in cerca di un luogo sicuro. Tutti i giorni Linea d’ombra supporta le persone che raggiungono Trieste dalla rotta balcanica. «Da qualche mese vediamo famiglie con bambini piccoli. Molte sono curde. Nell’ultimo mese ci sono anche tanti nuclei familiari dal Burundi, che è una novità» continua Gian Andrea Franchi «Stiamo assistendo a un aumento degli arrivi, forse anche dovuto alla decisione di quest’estate di Croazia e Slovenia di dare una sorta di foglio di via, soprattutto a famiglie e minori, che permette di attraversare il Paese senza problemi. Qui in piazza arrivano circa 80 persone al giorno».
Negli ultimi anni la rotta balcanica ha visto continui cambiamenti; dinamicità data da molteplici fattori: dalla differente distribuzione di assistenza umanitaria, ai mutamenti nelle politiche europee, agli spostamenti delle reti di contatti per il game (essenziali per la sua riuscita). «L’anno scorso molte persone andavano in Bosnia, anche ora ci sono, ma meno. Adesso le persone riescono più velocemente a passare dalla Serbia verso l’Ungheria e la Croazia, quindi non c’è motivo di attraversare un confine in più, per altro molto pericoloso», dice Sara Ristić, di KlikAktiv. Il fiume Drina separa la Serbia dalla Bosnia Erzegovina. Molte persone vengono uccise da quel confine. «Gli scorsi anni abbiamo avuto testimonianze di persone catturate dalla polizia bosniaca e costrette a nuotare indietro con le pistole puntate contro. Molte persone però non sanno nuotare e… affogano» aggiunge Ristić.
Le politiche di esternalizzazione europee generano frontiere sempre più pericolose, mentre non viene garantito accesso a vie legali. Solo nell’ultima settimana Info Park, centro di supporto per rifugiati a Belgrado, ha denunciato la morte di due giovani ragazzi afgani lungo i binari al confine tra Serbia e Bulgaria. Nonostante ciò, con l’operazione Terra 2022, Frontex ha annunciato il dispiegamento di ulteriori forze in 12 Paesi membri, tra cui Croazia, Romania e Ungheria. «La presenza di Frontex o agenti di polizia straniera è frequente. Alcune persone in transito ci hanno raccontato che se riesci a superare i primi controlli della polizia ungherese, poco dopo spesso incontri autorità straniere. Di solito li consegnano direttamente alla polizia serba o ungherese, divenendo complici e responsabili del pushback» spiega Ristić.
La gestione securitaria delle frontiere europee provoca forte pressione nei Paesi esterni all’Ue, come Serbia e Bosnia Erzegovina, che hanno un sistema di accoglienza al collasso, già di per sé fragile o inesistente. Racconta D’Amico: «Alcuni abitanti del luogo cercano di aiutare: qualcuno ha installato impianti per il gas e l’acqua in modo che le persone in transito possano avere accesso ai beni di prima necessità». Al tempo stesso, però, anni di politiche di esternalizzazione hanno alimentato sentimenti nazionalisti e xenofobi già insiti in alcune fasce della popolazione. «Il gruppo facebook “Stop ai migranti in Serbia” era il secondo gruppo più grande del Paese» spiega Ristić, che aggiunge: «A Belgrado ora organizzano ronde popolari, perché pensano che la polizia non stia facendo abbastanza per proteggere i cittadini dai rifugiati: vanno in cerca di persone migranti e li minacciano in diretta sui loro social media. In alcuni casi hanno effettuato degli “arresti civili” come li chiamano loro. Quando vedono qualche rifugiato in strada lo fermano fisicamente, lo prendono e lo portano alla prima stazione della polizia. È contro la legge».
La violenza xenofoba viene giustificata e alimentata dalla violenza istituzionale. Il ministro degli Interni serbo, Aleksandar Vulin, il 5 ottobre ha pubblicato un video in cui partecipa a uno sgombero di un accampamento informale vicino al fiume Tisza, nel nord della Serbia. «Tendenzialmente questi sgomberi sono frequenti e seguono uno schema stabilito: le autorità arrivano alle 5 del mattino, chiedono i documenti e chi non ha nulla viene caricato sugli autobus. In alcuni casi hanno picchiato le persone migranti, rotto i loro telefoni, e poi le hanno portate in campi lontani» spiega D’Amico di No name kitchen. Tuttavia aggiunge che «i campi istituzionali sono sovraffollati e le persone sono libere di entrare e uscire, quindi già dopo due giorni tornano all’accampamento appena sgomberato». Per questo motivo D’Amico definisce tali sgomberi forzati come uno “show”, «pratiche messe in atto dalla polizia per intimidire e rendere invisibile la popolazione in movimento allontanandola dai propri luoghi, è uno spettacolo più che un’azione realizzata per ottenere un risultato effettivo».
Gli spazi pubblici accessibili alla popolazione migranti sono limitati dalla violenza che li criminalizza per essere “irregolari”, nonostante non abbiano altri modi di raggiungere un luogo sicuro. Treni, autobus e ogni mezzo di trasporto è il primo luogo di selezione, dove chi ha determinati tratti viene fermato. A seconda del profilo etnico viene sollecitato o meno il documento. Piazze, bar e negozi sono di altrettanto difficile accesso. «L’obiettivo finale è quello di espellere le persone migranti dai luoghi pubblici e comuni in cui si riunisce la comunità serba. La polizia effettua spesso controlli nel centro della città. È successo anche a me. Una volta ero seduto in un parco e un poliziotto è venuto a farmi domande… non credeva che fossi argentino e ho dovuto fargli vedere immagini dei miei viaggi per fargli credere che il mio passaporto fosse vero», racconta D’Amico. Un episodio che descrive bene la selezione che decide chi è ammesso agli spazi pubblici e chi no. «I miei compagni e compagne di No name kitchen tedeschi, inglesi e italiani non sono mai stati fermati per il passaporto, ma i miei tratti sono più simili a quelli di una persona in movimento» continua D’Amico.
D’altronde la profilazione etnica attuata entro i confini serbi fa parte di una violenza più ampia, strutturale, propria dei confini stessi, nel momento in cui le frontiere esterne dell’Ue selezionano e filtrano secondo una logica di stampo neocoloniale. «Mentre i respingimenti illegali sono sistematici al confine meridionale dell’Ungheria, al confine settentrionale sono stati istituiti corridoi umanitari per i rifugiati ucraini» Ristić ride, amaramente e aggiunge «da anni inoltre vediamo persone in fuga dall’Afghanistan lungo la rotta. Lo scorso agosto le istituzioni europee hanno mostrato molta empatia dopo la presa di Kabul. Ma sembra che empatizzino solo quando non sono alle loro porte». Sara Ristić prende un respiro, riflette alcuni secondi e poi conclude: «Le persone in arrivo sono sempre di più, le violenze aumentano. Diminuiscono gli aiuti umanitari, mentre l’Unione europea continua a favorire politiche di esternalizzazione, finanziando Frontex, che costa molti soldi».