Quando è stata uccisa, il 7 ottobre del 2006, la cronista russa Anna Politkovskaja ha lasciato moltissimi orfani.
In Europa e Stati Uniti, dove era ammirata e considerata. Dove i suoi articoli erano raccolti in libri, tutti diventati bestseller. In Italia in particolare, Paese che l’ha sempre amata. Da noi è stata ospite in un’unica occasione, al Festivaletteratura di Mantova del 2005, l’anno prima di essere assassinata. Era l’11 settembre, una domenica calda e assolata. Lei era rimasta quasi sorpresa nel vedere il numerosissimo pubblico che aveva preso d’assalto il teatro Sociale. Avevano anche dovuto aprire i palchi, come non accadeva da tempo.
«Volevo ringraziare tutti voi per essere stati qui, in una domenica di sole, a sentir parlare di cose tanto lontane da voi e tanto drammatiche» aveva detto lei alla fine.
Di orfani, sempre metaforicamente parlando, Anna ne aveva lasciati anche in Russia. Benché fosse invisa al potere, emarginata dai suoi colleghi e chiamata da molti “la pazza di Mosca”, aveva ancora degli estimatori fra chi non si lasciava stordire dalla propaganda del regime. Anna raccontava che qualche volta, quando andava nei negozi, le persone le si avvicinavano e le dicevano cose del tipo “Oh Anya, ti sosteniamo così tanto, capiamo cosa stai facendo…” Ma succedeva sempre meno di frequente e le persone le parlavano piano, spesso all’orecchio. Non si sa se scherzando o meno, lei diceva che ormai della Cecenia non parlava più neanche agli amici stretti.
La cronaca di questi giorni, però, ha riportato di attualità il fatto che Anna ha lasciato anche due orfani in senso stretto, i suoi figli Il’ja e Vera. La secondogenita è stata qualche giorno in Italia per presentare il libro Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja (scritto con Sara Giudice e pubblicato da Rizzoli).
Seguo e stimo Anna da anni. Su di lei ho scritto anche due libri; il più recente è Anna Politkovskaja. Reporter per amore, uscito nel 2022 con l’editore Morellini. Perciò non potevo mancare all’incontro milanese, che si è tenuto il 22 febbraio alla Fondazione Feltrinelli. Sala gremita. Sul palco insieme all’autrice e all’interprete, due giornaliste del Corriere della Sera: il vice direttore Barbara Stefanelli e la responsabile redazione esteri Mara Gergolat.
La discussione ha ruotato principalmente intorno alla situazione attuale della Russia, che Vera ha dovuto lasciare precipitosamente dopo lo scoppio della guerra. Lei, giornalista, aveva perso il lavoro. La figlia Anna Viktorija, 15 anni, così chiamata in onore della nonna che non ha fatto in tempo a conoscere, era minacciata e bullizzata. Ora vivono all’estero, in un posto sicuro.
«Su Putin non ho risposte. Per alcuni è un grande presidente. Per altri è un dittatore. Per me è l’uomo che compie gli anni il giorno in cui è stata uccisa mia madre» ha detto. Ha poi raccontato la situazione disperata in cui si trovano tante famiglie, schiacciate dalla povertà, incapaci di farsi un’opinione su ciò che sta succedendo (i media indipendenti, già in forte minoranza, sono ora azzerati). Ha spiegato che molti ragazzi sono quasi costretti ad arruolarsi e che manifestare le proprie opinioni è molto pericoloso.
«In Russia o sei d’accordo con il regime o fingi di esserlo. Se scendi in piazza o anche solo manifesti il tuo disaccordo sui social, rischi di finire in prigione».
Alle domande, Vera rispondeva con garbo e misura, senza mai cambiare espressione. Giovane, graziosa, ma irrimediabilmente triste.
Finché le è stato chiesto perché, dopo gli inizi come violinista, abbia deciso di diventare giornalista. A quel punto, dopo 40 minuti dall’inizio dell’incontro, finalmente un sorriso ha illuminato il suo bel viso. «È successo per caso. All’inizio scrivevo di musica, poi di cultura. Poi sono passata ad attualità e politica. Ma in Russia non è facile occuparsi di politica».
Si è parlato poco di Anna, nell’incontro, e forse questo è stato un po’ deludente per i tanti intervenuti. «Mia madre ha fatto quello che ha fatto perché credeva nella libertà di espressione e nella giustizia. Da donna, teneva le storie delle persone nel suo cuore, ne veniva attraversata» ha detto a un certo punto Vera.
Sul finale, un racconto drammatico. Quando Vera era già all’estero, l’ha raggiunta la notizia che era stata data alle fiamme in modo chiaramente doloso la casa di vacanze della famiglia, una dacia a 90 chilometri da Mosca. Qui avevano trascorso momenti bellissimi. «Mamma ci andava spesso a scrivere. Sedeva in veranda, apriva il computer, il cane le si accucciava accanto, e si immergeva nei suoi testi complicati. Tutto era andato distrutto. È stato un grande dolore. Ma qualche mese dopo mi hanno chiamato i vicini: i fiori erano sbocciati, il prato era verde, l’edera rigogliosa, il salice si stava riprendendo. E ho pensato che anche per mia madre è così: lei non c’è più, ma il suo esempio e il suo insegnamento rimangono». E qui Vera ha sorriso di nuovo.
Dopo l’incontro, sono riuscita a conoscerla. Le ho detto, in inglese, quello che ci si può immaginare: quanto sua madre fosse eccezionale e quanto io la stimi. Poi, pur sapendo che non conosce l’italiano, le ho regalato il mio libro.
Tornata a casa, ovviamente, mi sono subito tuffata nel libro, divorato in una notte. Lo dico subito: per i fan di Anna è un po’ una delusione. Di lei non si parla molto e sugli episodi narrati, dal sequestro della Dubrovka all’avvelenamento di Beslan, abbiamo più dettagli noi lettori di Anna.
Però Vera – pur in una narrazione disorganica, lacunosa e carica di omissis – ci regala qualche piccola perla di vita familiare. Ci racconta le discriminazioni e le minacce subite da ragazzini da lei e Il’ja perché figli di due giornalisti non allineati. Ci restituisce l’immagine di una ragazza, diventata moglie e madre ancora giovanissima. Dei suoi sforzi per essere sempre all’altezza: «Non sapeva cucinare ed è diventata una cuoca eccellente. Come educatrice era molto severa: per noi voleva il meglio». E parla delle assenze: «Era spesso in Cecenia. Mi accorgevo che stava per partire, quando la vedevo tirare fuori abiti scuri e informi, per non dare nell’occhio. Metteva anche il velo, per nascondere la sua chioma grigia, così riconoscibile».
Se volete unire i puntini sulla vita, disperata ed eroica, di Anna dovete leggere i suoi libri. Raccontano vicende dure, ma lo fanno con una lingua pulita ed elegante. Sono la cronaca di una guerra terminata da anni, che però ricorda così da vicino quella che si sta combattendo oggi. Adelphi li ha da poco ripubblicati, con grande successo: La Russia di Putin, Per questo e Diario russo.
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Da leggere su Left: sempre di Lucia Tilde Ingrosso, Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja