Mettendo fine alla lunga tradizione socialdemocratica inglese (ed europea), ancor prima del crollo dell’Unione Sovietica, il premier britannico Margareth Thatcher consegnava alla storia la sua lezione: There is no alternative (Tina), non vi sono alternative al libero mercato e al capitalismo globalizzato. Non c’è, cioè, modo migliore dell’attuale per crescere, creare nuova ricchezza e distribuirla. Il paradigma, meglio l’assioma, sottinteso da Tina è tra i più longevi della storia economica; resiste da oltre quarant’anni e non mostra, a giudicare dai comportamenti messi in atto dai governi di ogni Stato in ogni continente, nessun segnale di possibile cedimento.
Già dal lontano 1972 i fondatori del Club di Roma, con il Rapporto sui limiti dello sviluppo, avevano messo in guardia l’opinione pubblica mondiale sull’insanabile antinomia fra crescita economica illimitata e limitata disponibilità di risorse naturali con il corollario di un inquinamento ambientale che avrebbe reso impossibile la vita sul pianeta. Bisognerà, tuttavia, varcare la soglia del nuovo millennio perché si consolidi un vasto interesse sulla precarietà dell’equilibrio terrestre soprattutto in seguito al manifestarsi, sempre più frequentemente e a ogni latitudine, di eventi climatici estremi come ondate anomale di caldo e di freddo, siccità, inondazioni. Soltanto nel 2018 è nato il movimento di Greta Thunberg, Fridays for future, che, a partire dalla Svezia, ha raggiunto adesioni in tutto il mondo sollecitando azioni politiche concrete per combattere il riscaldamento globale e la crisi climatica. I sacerdoti del Tina non si sono però arresi. È venuto in loro soccorso un nuovo paradigma, la Circular economy (Ce), grazie al quale i sistemi produttivi globali non dovranno intaccare nuove e sempre più scarse risorse naturali ma attraverso il recupero e il riutilizzo delle materie prime estratte dai rifiuti potranno prolungare indefinitamente la loro corsa.
Il termine “economia circolare” compare, ad esempio, 75 volte nelle 270 pagine del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Next Generation Italia) reso pubblico dal governo Draghi nel maggio 2021. Nel febbraio dello stesso anno il Parlamento europeo aveva votato un piano d’azione per la Ce, il Ceap (Circular economy action plan), con l’obiettivo, come ha scritto il suo portavoce Jaume Duch Guillot, di «raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050» (per inciso lo stesso governo Meloni dà poco credito a questo obiettivo se nelle settimane scorse ha concluso, con tanto di fanfara, un accordo in Libia per l’estrazione e l’invio di gas attraverso il Greenstream della durata di 40 anni, valido cioè sino al 2063!).
La comunicazione è stata così efficace che buona parte dello stesso movimento ambientalista ha finito per crederci e l’economia circolare figura oggi ai primi posti nel programma di qualsiasi forza politica progressista. Peccato che l’economia circolare, intesa in senso lato e non come stimolo a recuperare e rigenerare quanto più possibile dai nostri rifiuti, non sia altro che una chimera. Basta qualche dato. Ammettendo di poter tagliare il traguardo della differenziazione totale (il 100%), cosa manifestamente impossibile, per ogni tonnellata di frazione organica comunque trattata si hanno 220 Kg di rifiuti non recuperabili, un decimo dei quali è percolato; mentre il tasso di riciclaggio della plastica si attesta al 36%. Anche se l’Italia è tra i Paesi che ricicla di più, a livello globale il Circularity gap report stima che il rapporto fra i materiali recuperati e il totale delle materie prime immesse in produzione è stato appena dell’8,6% nel 2021, mentre era del 9% nel 2018.
Ma non si tratta di affinare metodologie di raccolta e tecniche di riciclo, il 100% di circolarità è, infatti, impossibile. Il limite è imposto da una delle più importanti leggi della fisica nota come Secondo principio della termodinamica. Un’economia che pretendesse di chiudersi in sé stessa, un’economia pienamente circolare, non solo varrebbe meno di un decimo di quella attuale ma decrementerebbe progressivamente sino ad azzerarsi. Ci vorrà del tempo ma è certo che i teorici dello sviluppo capitalistico, illimitato per sua necessità vitale, dovranno ammetterlo e trovare qualcosa di nuovo per confermare la validità assiomatica del Tina. Non resta, tuttavia, molto tempo. Nelle ultime tre decadi la quantità di materie prime estratte dalla Terra è più che raddoppiata e al ritmo attuale raddoppierà nuovamente entro il 2060. Il collasso dell’umanità nel corso di questo secolo, prefigurato dal Club di Roma, non è più un’ipotesi catastrofista.
A salvarci potrebbe essere un nuovo modo di produrre cibo perché, ci ricorda Piero Bevilacqua in un indispensabile saggio da poco uscito per l’editore Slow Food, Un’agricoltura per il futuro della Terra, è nell’agricoltura che l’ideologia del libero mercato ha trovato la più clamorosa delle smentite. L’idea che la libera circolazione di merci e di denaro, che in agricoltura ha preso il termine di Rivoluzione verde, fosse la condizione del benessere collettivo si è dimostrata un completo fallimento. Sotto la pressione delle grandi multinazionali dell’agroalimentare la monocoltura e la concimazione chimica hanno preso il posto della policoltura tradizionale. Milioni di contadini sono stati costretti ad abbandonare le terre dalle quali ricavavano sostentamento per affollare i miserabili sobborghi sorti nelle periferie delle megalopoli mentre milioni di braccianti immigrati, ridotti in regime di semi-schiavitù, completano nei campi il lavoro che le macchine non sono in grado di svolgere.
Ma non c’è solo quest’aspetto di profonda ingiustizia sociale, il modello dell’agricoltura capitalistica è incompatibile con gli stessi equilibri del pianeta perché l’uso di diserbanti e di pesticidi distrugge la fertilità del suolo e provoca contese tra gli stati che sfociano inevitabilmente in nuove guerre per l’acqua e per il cibo. La maggior resa produttiva del Tina applicato in agricoltura ha, poi, tra le contropartite anche la perdita di varietà e di qualità organolettica dei prodotti della terra; è esperienza comune la scarsa sapidità delle merci agricole, omologate e standardizzate, che vengono inviate al mercato attraverso la grande distribuzione. Sottrarre alla logica predatrice e dissipatrice del capitalismo la produzione di cibo prefigura, dunque, di per sé un nuovo assetto di società. Bevilacqua indica nell’agricoltura biologica, e soprattutto biodinamica, la necessaria risposta, ricordando che il 20% in meno di produttività stimata è poca cosa rispetto alle eccedenze alimentari che ogni anno si traducono in un miliardo e trecento milioni di tonnellate di rifiuti, da soli in grado di sfamare la metà attuale della popolazione mondiale.
L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. È tra gli autori del libro collettaneo a cura di Tiziana Drago e Enzo Scandurra Cambiamento o catastrofe? La specie umana al bivio (Castelvecchi 2022)