Turist Hotel, Kyiv, sveglia poco prima dell’alba.
Ci buttiamo sotto la doccia, ci vestiamo. Ricontrolliamo minuziosamente i nostri zaini.
Non possiamo correre rischi, ogni singolo etto degli oltre 30 kg che ci porteremo dietro è fondamentale: 4 bottiglie d’acqua a testa, una ventina di snacks, 6 barattoli di fagioli, un sacco a pelo, una coperta termica, 2 rotoli di carta igienica, un pantalone, un maglione termico e una manciata di biancheria pulita.
In più l’attrezzatura: un gimbal, 2 reflex, microfoni, numerose batterie, 6 power banks carichi, due torce, un drone.
Scendiamo che inizia ad albeggiare. Il furgone ci aspetta nel parcheggio dell’hotel. I nostri tre compagni di viaggio sono già a bordo.
Da lì a due ore il nostro autista ci abbandonerà in una strada di campagna nella provincia di Ivankiv.
Era marzo 2017, e stavamo per imbarcarci in un’avventura incredibile: un viaggio illegale, a piedi, di cinque giorni, all’interno della Zona di esclusione di Chernobyl, al seguito di un gruppo di stalker.
Una spedizione da documentare, perché poi sarebbe diventata un film.
Un’esperienza unica, e nessuno avrebbe immaginato che di lì a pochi anni non sarebbe mai più stata possibile.
Perché a causa della guerra, la Zona non sarà mai più la stessa.
Nel lontano 2002 il governo ucraino aprì per la prima volta la zona di esclusione di Chernobyl al turismo. Quell’anno ci furono 870 presenze.
Fino ad allora era possibile accedere alla Zona, ottenendo permessi speciali, solo a scienziati e giornalisti, anche se già esisteva il fenomeno illegale degli “stalker”.
Gli stalker, pescano il proprio nome dalla letteratura e cinematografia sovietica, più precisamente dal romanzo Pic-nic sul ciglio della strada” dei fratelli Strugatzki e dal film Stalker, capolavoro di A. Tarkovskij, mentre i più giovani si rifanno al videogame cult “S.T.A.L.K.E.R., uscito nel 2007 e ambientato proprio nella zona di esclusione.
Scopo degli stalker è vivere la Zona nella più completa libertà, sfidare sé stessi, sopravvivere qualche giorno a Pripyat (la città abbandonata dopo il disastro ndr) e, negli ultimi anni pre-pandemia accompagnare a pagamento turisti in cerca di emozioni estreme.
Tutto questo avveniva illegalmente, con accessi non consentiti lungo l’esteso perimetro dei 2.600 Km quadrati che formano la zona di alienazione. E poi a piedi, attraverso i fitti boschi e i numerosi villaggi abbandonati, in circa tre giorni di cammino si raggiunge la città fantasma di Pripyat.
Qui, i vari gruppi di stalker, spesso in competizione, vivono per qualche giorno, o anche per settimane, avendo come base alcuni appartamenti riallestiti alla meglio, solitamente nei piani alti dei numerosi palazzoni modernisti.
Nel frattempo si moltiplicarono i tour legali e nacquero svariate agenzie, più o meno affidabili, che permettevano una gita a Chernobyl in assoluta sicurezza, a prezzi tutt’altro che contenuti, se rapportati al tenore di vita ucraino.
Solitamente si trattava di oltre 100 euro per 4 ore nella Zona, con visita alle principali “attrazioni”, come l’ex colonia per bambini chiamata “Emerald summer camp”, distrutta da un incendio nel 2020, l’enorme radio-stazione Duga, e chiaramente la città di Pripyat con i suoi hot spot radioattivi in cui era possibile provare il brivido del bip-bip del contatore Geiger e visitare i luoghi simbolo quali il parco giochi, l’asilo, la piscina, l’ospedale, e molti altri.
Il turismo nella Zona ha permesso ad una delle aree Ucraine più depresse economicamente di avere un imprevisto e massivo indotto economico, e di sviluppare tutta una serie di attività legate a questi nuovi flussi turistici, come strutture ricettive, ristoranti, società di traporto persone e guide, per l’appunto.
Allo stesso tempo sono fiorite in Europa, anche qui in Italia, numerose associazioni che hanno improvvisato i viaggi a Chernobyl, appoggiandosi (per forza di cose) ai tour operator ucraini, ma caricando enormemente sui prezzi, lucrando sull’ignoranza e sulla mancanza di informazioni, e proponendo viaggi assolutamente normali spacciandoli per unici.
I numeri sono stati sempre in continua ascesa, e nell’ultimo anno pre-covid, grazie anche al successo della mini-serie HBO “Chernobyl”, il numero di visitatori ha sfiorato le 125mila presenze.
Questo è dovuto anche al crescente interesse nei confronti del cosiddetto “dark turism”, il turismo delle disgrazie, che è sempre esistito, ed è lo stesso che ogni anno porta milioni di turisti nel campo di Auschwitz-Birkenau in Polonia, o a vedere i resti di Pompei. Negli ultimi tempi, complice anche l’esplosione del movimento Urbex si sta però orientando verso mete sempre più esotiche e pericolose, oltre che verso vere e proprie esplorazioni illegali, come la città militarizzata di Varosha a Cipro, lo shuttle abbandonato a Baikonur in Kazakisthan, o l’isolotto/fortezza di Hashima in Giappone.
La Zona di esclusione di Chernobyl rientrava pienamente in quest’onda di interesse, e la sua popolarità era destinata a crescere anno dopo anno.
Se non ci fosse stata di mezzo l’invasione da parte della Russia.
Il primo giorno di guerra, il 24 febbraio, le truppe di Putin entrarono in Ucraina dal confine bielorusso proprio nella zona di esclusione di Chernobyl, e nel giro di poche ore presero possesso dell’intera area, compresa la centrale nucleare e i 300 tecnici che ci lavoravano. L’occupazione durò poco più di un mese, fino al 29 marzo, quando i militari russi, dopo il fallimentare tentativo di prendere la capitale Kyiv, si ritirarono e cambiarono strategia concentrandosi sul Donbass e sulle regioni più a est.
Uno dei più gravi danni causati dall’incompetenza dell’esercito russo in un luogo così pericoloso e delicato, è stato l’ignorare completamente il rischio radioattivo e le ricadute su ambiente e esseri umani, loro compresi, passando con mezzi pesanti e scavando trincee all’interno della Foresta Rossa, uno dei luoghi più inquinati in assoluto nell’intera zona di esclusione.
I radionuclidi nel tempo si depositano a terra e con le precipitazioni atmosferiche scendono nel terreno, diminuendo sensibilmente la loro presenza in aria.
Gli scavi e le movimentazioni massicce di terra operate dai soldati russi hanno disseppellito e rimesso in circolo un’enorme quantità di particelle radioattive, e secondo le fonti internazionali, i valori in aria sono oggi di venti volte superiori a quelli rilevati prima della guerra, con una preoccupante media di 65 microsievert all’ora.
Sembrerebbe che gli stessi russi abbiano subito l’effetto delle radiazioni, e che numerosi soldati siano stati poi ricoverati a causa della sindrome da radiazione acuta, la stessa che colpì ed uccise i pompieri che lavorarono alla centrale subito dopo l’incidente del 1986.
Durante la loro ritirata hanno inoltre sparpagliato mine antiuomo in tutta la zona di esclusione, ed attualmente i genieri dell’esercito ucraino insieme a degli esperti internazionali stanno portando avanti una difficoltosa opera di sminamento, che difficilmente potrà essere completata, vista l’estensione e la conformazione del territorio.
Attualmente la Zona è sotto il controllo totale dei militari ucraini, ed essendo terra di confine con la Bielorussia rappresenta una delle più importanti linee di difesa di Kyiv.
Anton Yuhimenko, ex guida del tour operator “Radioactive Team” ci spiega che le possibilità che la Zona si riapra al turismo dopo la guerra sono bassissime: «Il territorio è tutto minato e i livelli di radioattività sono altissimi, e questo non permette di creare un’offerta turistica sicura. Inoltre la Zona è militarizzata e probabilmente lo rimarrà anche dopo la guerra, vista la sua importanza strategica».
L’unica possibilità è che si creino dei percorsi circoscritti e recintati in cui fare delle veloci visite, magari limitate alla sola città di Pripyat, ma di sicuro non sarà possibile fare i numeri di una volta.
Stessa sorte, se non peggiore, riguarda il fenomeno degli stalker.
Mentre una bonifica di alcune aree della città di Pripyat e una conseguente riapertura al turismo è forse possibile, le modalità illegali e casuali con cui normalmente si muovevano gli stalker li metterebbero di fronte a pericoli enormi sia per la possibilità di incappare nelle mine antiuomo, sia per il fatto che le unità di difesa ucraine potrebbero sparare a vista vedendo persone non autorizzate aggirarsi per i boschi.
Ma per gli stalker non sarà possibile restare a lungo senza la Zona, il loro movimento è romantico e nichilista e sono convinti che potranno riprendere i loro viaggi.
Uno dei tre protagonisti del mio documentario, Aleksandr Sherekh, ci dice: «Il movimento stalker è come se fosse parte integrante della Zona, e piano piano, con l’avanzare delle operazioni di sminamento, torneranno anche gli stalker».
Dello stesso parere è uno dei massimi esponenti di questo movimento, Timur Sadykov: «La Zona tornerà viva, non so quando, ma so che accadrà, ora si sta solo riposando dal turismo ufficiale, dai vandali, dagli stalker, ma tornerà, perché la Zona non può essere dimenticata, e chi c’è stato, dovrà prima o poi ritornarci».
Rimane il fatto che la Zona è tornata a prima del 2002, ed attualmente è visitabile in sicurezza solo da giornalisti accreditati e scienziati.
Realisticamente è impensabile che si potrà fare una bonifica totale di tutte le foreste presenti, e quindi resterà un’area fortemente controllata e di difficilissimo accesso per moltissimo tempo.
Forse finalmente quei luoghi troveranno la pace ed il rispetto che meritano, e non saranno più trofei da esibire nei selfie di qualche turista che vuole solo darli in pasto ai social.
Testo e foto di Alessandro Tesei
L’autore: Alessandro Tesei è regista, documentarista e fotografo. Tra i suoi lavori, il lungometraggio documentario Fukushame – Il Giappone perduto, vincitore dell’Energy Award al Festival del Cinema Verde (Usa) e dello Yellow Oscar all’Uranium Film Festival 2015 (Brasile).
Il video-doc LA FINE DI CHERNOBYL di Alessandro Tesei