L'incontro tra Silvia e Claudia Pinelli e il blogger in carrozzina Gianfranco Falcone nella Milano della loro infanzia. Nelle parole di Claudia, il coraggio della madre Licia, l'incessante richiesta di fare luce su quella morte nel 1969 nella Questura a Milano e l'orgoglio di essere figlia di "un uomo aperto al mondo”

Con Claudia e Silvia Pinelli ci incontriamo a Milano. Volevo che mi aiutassero a raccontare il quartiere in cui ho sempre vissuto e in cui loro hanno trascorso gli anni dell’infanzia. Il quartiere è quello di Piazzale Selinunte e delle vie adiacenti. È il quartiere di Milano con la maggior densità di edilizia popolare. È un quartiere che negli ultimi anni è stato raccontato molto, nel suo aspetto folkloristico ma non nel suo cuore intimo.
A Piazzale Segesta vicino alla scuola francese c’è un pezzo di prato. Lì il comune di Milano ha dedicato un albero a Pino Pinelli. Per uno degli strani scherzi del destino, quell’albero e quella targa sono a poca distanza dall’abitazione della moglie del commissario Luigi Calabresi.

Sulla targa è inciso “Albero dedicato a Giuseppe Pinelli, ferroviere, anarchico, partigiano”. Più in basso “18esima vittima innocente in seguito alla Strage di Piazza Fontana”. Ancora più sotto “A 50 anni dalla tragica morte in suo ricordo nel quartiere in cui abitò”. In alto a sinistra c’è lo stemma del Comune di Milano, a destra un logo e la scritta “Milano è memoria”.


Chiedo la storia di questa targa mentre Pietro Masturzo che nel 2010 ha vinto il World Press Photo è con me. È intento alle riprese per un documentario a venire sul quartiere. Pietro di tutto questo racconto sarà l’uomo ombra, presente ma silenzioso.
È Silvia a rispondermi.

Mi raccontate la storia di questa di questa targa? Perché è stata messa qua e quando?
Il comune di Milano ha voluto questa targa ed è molto importante, perché ci sono voluti ben cinquanta anni affinché il Comune si ricordasse di Giuseppe Pinelli. C’è un cippo come si può vedere e c’è una quercia. La quercia rossa è stata una richiesta nostra, perché ha radici molto profonde, un tronco largo e rami che si espandono verso il cielo.

Quand’ero ragazzino andavo alla scuola media di via Fogazzaro. Adesso è stata abbattuta, il terreno è totalmente occupato dalla scuola francese. Voi dove andavate a scuola?
Claudia: Noi andavamo alla scuola elementare di via Paravia, dopo la morte di nostro padre abbiamo cambiato scuola e abbiamo frequentato elementari e medie dall’altra parte della città, al Trotter, in viale Monza. La proposta dell’albero per Pino è arrivata da noi dopo un incontro con il Comune in preparazione al cinquantesimo anniversario. Io ero appena andata in Armenia. Per ricordare un giornalista di origine armena ucciso ad Istanbul hanno piantato mille alberi per ogni anno di vita. Oggi c’è una foresta di 53mila piante. Da qui la proposta di dedicare un albero a Giuseppe Pinelli. È un atto molto importante perché oltre a essere il primo gesto del Comune di Milano a ricordo di Pino è una restituzione di vita nel quartiere in cui ha vissuto. Noi abitavamo in via Preneste successivamente in via Morgantini.

Il quadrilatero che ha come cuore piazza Selinunte è stato il vostro quartiere. Alle elementari andavate come me alla scuola di via Paravia?
Silvia: Eh beh, sì.

Avremmo potuto vederci e conoscerci.
Claudia: All’epoca se non ricordo male c’erano classi femminili e classi maschili.

Voi venivate qui a giocare qualche volta.
Claudia: No assolutamente.
Silvia: Giocavamo nei cortili.
Claudia: Avevamo il cortile, anche perché nostra madre Licia lavorava da casa. Trascriveva a macchina le tesi di laurea e i lavori dei professori universitari. Aveva l’esigenza di tenerci sotto controllo. La domenica qualche volta si andava all’oratorio insieme alle amichette del cortile.

Adesso non si vedono molti bambini in giro.
Silvia: Questo è un quartiere molto popolare. È cambiato il tipo di abitanti, una volta erano operai. Era il quartiere del sottoproletariato. Mi ricordo che andavamo sempre a casa di questo signore che faceva i materassi. Una volta facevano i materassi di lana, li cardavano.

Erano i mestieri di un mondo antico.
Silvia: La vita era nei cortili durante il periodo estivo, se no eravamo sempre a casa di uno o dell’altro a giocare.

Il gioco nei cortili lo ricordo bene. Si creavano le bande che poi si scontravano.
Claudia: C’era una rivalità tra cortile, con la portinaia che ti sgridava se andavi nel cortile dove avevi abitato fino a poco tempo prima per giocare con i tuoi amici. Le portinaie erano delle figure importanti, dettavano legge, ordine e disciplina all’interno del cortile. Scaduto l’orario tutti a casa.

Andrei in via Micene. Sotto la targa ufficiale che indica la via c’è un’altra targa che ricorda il vostro papà.
Claudia. Sì messa recentemente.


Quando l’ho vista mi sono commosso.
Vostra mamma Licia battendo le tesi vedeva passare testi di diverso genere. Era una donna di cultura?
Claudia: Diciamo che entrambi erano persone di grande cultura, senza aver potuto continuare degli studi regolari. Perché dovevano aiutare economicamente la famiglia. Il fatto che non abbiano mai rinunciato però alla loro formazione, e abbiano continuato a leggere e studiare fa la differenza. Persone che si sono fatte trascrivere da nostra madre le tesi di laurea mi hanno detto che era bellissimo il rapporto di scambio che si creava. Perché si discuteva di quello che avevano scritto. Non trascriveva e basta, c’era poi tutta un’elaborazione. Il lavoro era lungo perché dovevano essere “battuti a macchina” dei manoscritti di cui venivano fatte cinque copie, con la carta carbone. C’era la discussione sul contenuto, sulla forma e sulla lingua. Quando Licia è rimasta incinta di mia sorella Silvia, che ha solo un anno più di me, la ditta per cui lavorava l’ha licenziata. È stato un momento di difficoltà ma i nostri genitori non si sono persi d’animo. Pino aveva vinto il concorso e lavorava in ferrovia, e lei ha continuato a lavorare come dattilografa da casa. Una copisteria ha cominciato a passarle del lavoro e poi ha funzionato il passaparola. Non erano ricchi, ma potevano vivere dignitosamente. Vivevano del loro lavoro.

Appartenevano alla generazione dei miei genitori, che si sono rimboccati le maniche e sono riusciti a educare i figli, a dargli una casa.
Claudia: È stato anche Il lavoro di Licia che ha permesso loro di ampliare i propri orizzonti e avere una casa aperta al mondo. Non è stato solo Pino, che era una persona estremamente dinamica e estroversa impegnata a livello politico e sociale anche come sindacalista, oltre che come militante anarchico, che portava il mondo a casa. Entravano anche tutti questi studenti e assistenti universitari con cui si discuteva del mondo, di quello che avveniva, di come si poteva agire in quegli anni di speranza, di profondi cambiamenti sociali.

Voi in quegli anni in qualche modo avete assorbito questa atmosfera di incontri, di socializzazione.
Claudia: Assolutamente sì.
Silvia: Avevamo una casa talmente piccola che era tutto concentrato lì, ed era il nostro mondo, una casa sempre molto viva. Il fatto che mia mamma copiava a macchina le tesi le ha permesso di farsi una cultura generale su tante cose. Me ne accorgo anche quando parlo con lei.

La vostra mamma c’è ancora?
Silvia: Ha novantacinque anni.
Claudia: Sì c’è ancora. Tocca tutti i legni che trovi per scaramanzia, perché per il momento sta bene ed è lucida.

Avrebbe voglia di parlare con noi?
Claudia. No, assolutamente, ma proprio nella maniera più assoluta. Non ti lascio neanche uno spiraglio.
Silvia: Non con voi, in generale.

Lei ha deciso che non avrebbe parlato?
Claudia: Lei ha fatto tutto. Dopodiché a novantacinque anni ha anche il diritto di fermarsi.
C’è anche un discorso caratteriale. Licia ha sempre vissuto con estrema fatica il dover diventare un personaggio pubblico, partecipare e rilasciare interviste. Nel momento in cui ha scritto con Piero Scaramucci il libro Una storia quasi soltanto mia ha detto “Questa è la mia testimonianza. È quello che rimarrà”. Qualche altro intervento l’ha fatto. Però adesso veramente, va troppo in ansia. C’è l’ultima intervista rilasciata nel 2019 e c’è stata male. Allora perché?

Invece dell’intervista datele un bacio da parte mia.
Claudia. Assolutamente.

Il resto della passeggiata sarà solo con Claudia e con Pietro. Silvia deve lasciarci per un impegno. Claudia continua il suo racconto.

Per moltissimi anni non sono venuta in questo quartiere. La nostra vita è andata altrove. Quando avevo circa quindici anni ci siamo trasferite sempre in una casa popolare, ma in Porta Romana. Quindi questo quartiere è diventato lontano, lontano dalla nostra vita, dai nostri interessi, lontano dalla scuola. Comunque dopo la morte di Pino il quartiere lo frequentavamo già poco. Perché cambiando scuola e andando dall’altra parte della città, in viale Monza alla Casa del Sole, che era a tempo pieno, quando tornavamo a casa erano almeno le cinque e mezza del pomeriggio e d’inverno era buio e ti chiudevi in casa, non c’era più tempo per giocare in cortile. La nostra vita è cambiata. Non c’era più quella porta di casa spalancata ad accogliere chiunque come prima.

Di quel periodo ho delle immagini. Mio padre lavorava all’ufficio contravvenzioni, in piazza Beccaria, a pochi passi da piazza Fontana. Quello che ricordo dell’esplosione alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, è mio padre che torna pieno di angoscia dicendo: «Ho visto vetri, ho visto sangue».
Ricordo lui che mangia davanti al televisore ed ascolta il telegiornale impietrito.

Claudia ascolta con interesse questi frammenti di memoria.

Una volta ho letto che tuo padre aveva avuto un malore attivo e per questo era precipitato dalla questura.
È la sentenza del giudice Gerardo D’Ambrosio.

La formula malore attivo mi sembra un’idiozia assoluta, che va al di là di qualsiasi possibile buonsenso.
Diciamo che quella è stata una interpretazione di altri dopo la lettura della sentenza. Il giudice D’Ambrosio non usa questo termine. Nella sentenza esclude il suicidio, esclude però anche l’omicidio e attribuisce la morte di Pino a un possibile malore, causato da tre giorni di fermo illegale, dalle privazioni di cibo, di sonno, e altro ancora. Presumibilmente si è sentito male secondo il giudice, quindi avrebbe dovuto accasciarsi e invece, mentre era in corso l’ennesimo interrogatorio con almeno cinque funzionari di polizia presenti in quella piccola stanza al quarto piano, è precipitato dalla finestra schiantandosi nel cortile della questura. Per il giudice D’Ambrosio il malore ha comportato un’alterazione del centro di equilibrio che ha comportato uno spostamento del baricentro che ha provocato il volo dalla finestra. L’unico caso di “malore attivo” della storia della medicina legale.

Claudia senza completare la frase aggiunge qualcosa che esprime bene il suo pensiero.

L’unico che invece di accasciarsi avendo un malore…

Tu cosa ne pensi di questo?
Che il giudice D’Ambrosio doveva chiudere, archiviare, perché altrimenti avrebbe messo a rischio la sua carriera.

Quindi quella del giudice D’Ambrosio è stata una conclusione di comodo?
Diciamo che l’unica volta che ho incontrato il giudice D’Ambrosio mi ha detto “Mi devo giustificare con lei”. Erano passati quaranta anni. Avrebbe dovuto farlo con mia madre guardandola negli occhi. “Ho fatto quello che ho potuto” mi ha detto. “Non ho potuto usare né polizia né carabinieri. Sono stato l’unico magistrato a uscire sul luogo dove è morto suo padre”. Quando muore qualcuno il magistrato di turno deve uscire immediatamente. Non è uscito nessuno.

Era lui il magistrato di turno in quell momento?
No, lui riceve l’incarico dal procuratore generale Luigi Bianchi d’Espinosa, che accoglie la denuncia presentata dalla nostra famiglia tramite l’avvocato Carlo Smuraglia. Il giudice D’Ambrosio fa i rilevamenti nel cortile della questura, e delle prove di caduta con un manichino che fa costruire da Carlo Rambaldi, quello che ha costruito ET. Che riproduce la corporatura, la statura di mio padre, e sembra che non riescano ad arrivare a delle conclusioni certe con questo. Nel frattempo gli viene sottratta l’inchiesta su piazza Fontana che è molto più consistente, e che gli interessava sicuramente di più, e chiude l’inchiesta sulla morte di Pino dopo tre anni, con quella sentenza che archivia il caso. Non è suicidio non è omicidio, sarà stato un malore. Il che comporterebbe che tutti i presenti nella stanza e in questura quella notte hanno mentito. Hanno mentito quelli che hanno parlato di raptus, di “suicidio” al grido “È la fine dell’anarchia”. Ha mentito l’agente che dice che gli è rimasta una scarpa in mano nel tentative di fermarlo, ma le aveva entrambi ai piedi quando è precipitato. Hanno mentito tutti. E quindi? Non succede nulla, non succede assolutamente nulla.

Tu fai una scelta diversa da quella di tua madre. Continui ad affrontare la fatica della testimonianza.
Beh, diciamo la necessità della testimonianza. Perché nella nostra storia in troppi mettono le mani cercando di trasformarla in altro, di addomesticarla. Ci sono stati dei passaggi in questi anni che sono stati assolutamente importanti, come l’incontro istituzionale il 9 maggio 2009 con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Cosa succede?
In occasione della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, riceviamo un invito da parte del Quirinale e veniamo informate che il presidente della Repubblica in quell’occasione avrebbe riconosciuto Giuseppe Pinelli come diciottesima vittima innocente della strage di Piazza Fontana. Mia madre sorprendentemente vuole esserci. Quindi partiamo per Roma sostenendo le spese del viaggio aereo. Perché non riceviamo neanche un rimborso spese. È stato un momento comunque estremamente importante per tutte noi e soprattutto per Licia. Nel 2009 aveva ottantun anni, ne aveva quarantuno quando Pino morì, sono dovuti passare quaranta anni per poter ascoltare parole di giustizia pronunciate dalla più alta carica dello Stato. “Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli, vittima due volte di infondati sospetti e di un’assurda fine”. È stata una giornata importante ed emozionante anche perché per la prima volta incontriamo i familiari delle vittime di piazza Fontana che non avevamo mai incontrato prima. Come si può trasformare un atto così significativo?
Si potrebbe trasformare in qualcosa che porta a un riconoscimento di verità oppure arenarsi all’istante in cui le vedove del ferroviere e del commissario si sono strette le mani, vivendolo come il momento in cui il passato si cancella e si passa oltre. Si è parlato in quell’occasione di memoria condivisa, di pacificazione, ecco, non per noi, noi aspettiamo ancora la verità.

Una volta da ragazzino bevvi un bicchiere di vino nel bar che Pietro Valpreda aveva aperto in corso Garibaldi a Milano. Lo versò lui. Il suo viso era fermo, si leggeva dolore. Non parlammo. Credo che quell’uomo abbia veramente sofferto tantissimo. Ci sono state delle vite spezzate dalla morte o dall’impossibilità di continuare nel proprio percorso.
Noi uscivamo da questo cancello. Te lo ricordi?

Siamo davanti all’ingresso principale della scuola elementare di via Paravia.

No, sinceramente no. Non lo ricordavo.

Uscivamo da questo cancello, da quei gradoni.
Devo dire che i miei ricordi sono diventati un po’ selettivi.

Che cosa ricordi di quegli anni?
Sai cosa mi è tornato in mente rivedendo la scuola? Adesso mi viene da ridere. Che Pino venendoci a prendere un giorno disegnò una “A” cerchiata con un gessetto viola su questo muretto. Il giorno dopo è venuta a prenderci Licia. E mentre era con le altre mamme io indico alle mie compagne il segno sul muretto dicendo “Questo l’ha fatto mio papà”. E mia madre mi strattona e ci dice “Via, andate a giocare”.
Comunque bellissimo. Sì mi hai fatto ricordare questa “A” cerchiata fatta da Pino con il gessetto. Dai sono contenta. Rivedo ancora l’imbarazzo di Licia.

Le mamme hanno sempre hanno un altro approccio.
Loro avevano sicuramente dei valori comuni. Però quanto è sempre stata riservata Licia così è sempre stato estroverso Pino, anche giocherellone. Pino era estremamente comunicativo e vedeva il buono in tutti. A Licia invece non è che piacessero proprio tutti quelli che passavano da casa.

In via Paravia c’è sempre stato il mercato rionale. In via Zamagna invece c’è il mercato delle povere cose.
Sai che cosa mi ricordo?! Che io e mia sorella andavamo a scuola con un’amichetta. Ogni tanto c’era un nebbione tale che se eravamo sui lati opposti del marciapiede non riuscivamo a vederci e dovevamo chiamarci.

La nebbia adesso non c’è più. Ma continuiamo a passeggiare. Non rimaniamo sul marciapiede. Con la carrozzina a volte riesci a salire ma quando devi scendere non puoi perché non ci sono scivoli.
Ricordo che con il mio papà, che non è mai stato un bravo guidatore, andavamo a trovare a Baggio dei parenti e spesso ci perdevamo al Quartiere degli Olmi. Perché c’era una nebbia che non vedevi a un metro da te.
Era da tempo che non pensavo alla nebbia e al fatto che andavamo a scuola da sole.

Io andavo da scuola da solo o accompagnato da mio fratello. È più grande e mi proteggeva. Inizialmente pensavo di non chiedertelo, ma poi ho visto che tu ne hai discusso sulla tua pagina Facebook. Cosa ne pensi della vicenda Cospito?
Io penso che stia subendo una pena sproporzionata e penso che qualsiasi sia il reato commesso non debba essere lasciato morire, e che non può che mettere in gioco il suo corpo, sé stesso per denunciare la tortura a cui è sottoposto. Uno che decide di portare avanti uno sciopero della fame in questo modo è perché comunque in quelle condizioni non c’è una vita (Cospito ha sospeso lo sciopero della fame il 19 aprile Ndr).

Scenderei da qui perché non vedo scivoli.
Ma ce la fai?

Sì un saltino così è fattibile.
Davvero? Sei bravissimo.
Là dove abitavamo hanno messo una targa (ma) da diversi anni, almeno una ventina. Magari andiamo là prima.

Adesso prendo la rincorsa e faccio un salto.
Sono ammirata.

È una questione di sopravvivenza. Non c’è nessuna, nessuna abilità.
Sono d’accordo con le tue parole. Pena esagerata per Cospito. Ancora prima della messa in discussione del 41 bis c’è una pena esagerata che sa molto di vendetta.
Che sa di vendetta. Esatto.

Nordio ha firmato la conferma del 41 bis. Ma a volte lo Stato se vuole essere veramente laico dovrebbe anteporre criteri di umanità.
C’è chi difende questa pena che io ritengo iniqua sbandierando che il 41 bis l’ha voluto il giudice Falcone per cui non si tocca, ma dovrebbe ricordare che il 41 bis era un istituto assolutamente provvisorio ed eccezionale destinato ai mafiosi, ed è diventato permanente e comminato a chiunque. Sono passati trent’anni e ancora manteniamo leggi eccezionali che contrastano I dettami della Costituzione. Il che equipara il nostro Paese a un Paese dittatoriale.

Per la libertà di stampa l’Italia è al centocinquantesimo posto.

Davanti a via Preneste Claudia ci mostra dove abitava.

Quindi questo era il tuo cortile?
Sì, diciamo che questi erano i nostri cortili. Prima abitavamo al quattro, però erano solo due locali con quattro piani da fare a piedi perché era l’ultimo piano. Mi ricordo quasi meglio questa casa dell’altra. E poi siamo passati al due. Non riesco a ricordare quale fosse la scala.

Sei mai tornata nel tuo appartamento a vederlo?
Non abbiamo mai avuto questa esigenza. Ho delle immagini del funerale di Pino ricostruite con foto e racconti perché io non c’ero. Qui davanti sono arrivate circa tremila persone, la gente era affacciata alle finestre delle palazzine, ma c’erano i vicini, I parenti, i compagni, gli amici, anche poeti come Fortini e Raboni, in un quartiere assediato dalla polizia. in quel momento di paura, di angoscia, quando le versioni che passavano erano solo quelle ufficiali, essere presenti al funerale di Pino è stato un atto di coraggio con la polizia che ha schedato praticamente tutti quelli che hanno partecipato al funerale. Si dovevano mostrare i documenti per riuscire ad arrivare qui, e comunque la polizia fece in modo con blocchi stradali e delle cariche che non si arrivasse al cimitero. Ci arrivano in pochissimi.

Per quale necessità le cariche di alleggerimento?
Torna a quel momento. È scoppiata la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che ha provocato morti e feriti in piazza Fontana. Si ha paura, siamo nel pieno della strategia della tensione. Si teme il colpo di Stato. I sindacati si riuniscono per tre giorni e per tre notti. Decidono lo sciopero generale per il giorno dei funerali delle vittime della strage. Questo permette a migliaia di persone di partecipare ai funerali delle vittime della strage dando un segnale molto forte di presenza attiva, tanto che non venne decretato lo stato di emergenza. Ma per la questura i colpevoli sono gli anarchici. Viene arrestato Pietro Valpreda il 15 dicembre. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre mio padre, fermato con tanti altri solo per la sua appartenenza politica, trattenuto illegalmente per oltre 72 ore, muore precipitando da una finestra della questura. Si schianta nel corso di un interrogatorio. “Suicidio a dimostrazione della colpevolezza” è la prima e menzognera versione del questore di Milano Marcello Guida che viene ripresa da tutti gli organi di informazione. Si ha paura. C’è un sacco di gente che dorme fuori di casa. Si ha paura.

Questo depone ancora di più sul coraggio di quelle tremila persone che erano presenti. Stanno ritirando fuori la paura degli anarchici?
Diciamo che non penso che la storia si ripeta uguale a sé stessa ma determinati meccanismi sì. Quelli di colpevolizzazione del dissenso, quello del capro espiatorio, quello di distrazione con colpevoli precostituiti. Quindi bisogna imparare dalla storia a riconoscere questi meccanismi. Per questo è importante conservare la memoria.

Mi sembri una donna molto lucida.
Beh speriamo ancora per qualche anno, grazie.

Scoppia in una risata cristallina.

Quanto ti è costata questa presa di coscienza?
Beh, tanto, tantissimo. Ma anche perché non è arrivata subito.
Subito sei travolta. Tutta la tua vita si schianta in quel cortile. Perdi il padre, ma perdi anche la madre che deve affrontare una lotta impari per avere verità e giustizia. Nulla è più come prima, e tu a otto anni non ti puoi più permettere di essere una bambina, perdi l’infanzia. Licia trova una forza che non pensava di avere e per fortuna si mette in moto anche una solidarietà che le permette di ritrovare un lavoro in un ufficio. Accetta la proposta di lavorare all’università all’istituto di Biometria e Statistica Medica con il professor Giulio Maccacaro che partecipando ai funerali soccorre il nonno, il padre di Pino, che si sente male. Qualche giorno dopo si ripresenta sia per chiedere notizie del nonno ma soprattutto per offrire a Licia quel posto di lavoro.

Che cosa fa?
Fa la segretaria in università. Poi una sua collega che doveva passare di ruolo le cede il posto così il suo incarico diventa fisso. La solidarietà. Dalle ferrovie arriverà dopo alcuni anni una pensione di reversibilità di 15mila lire per i quindici anni di lavoro di Pino.
Non c’è mai stato nessun indennizzo per noi. Siamo andate avanti con il lavoro di Licia e una solidarietà non scontata da parte di persone che non conoscevamo. Lentamente, le versioni ufficiali si sono incrinate grazie ai dubbi e alla ricerca della verità di moltissime persone. Licia, noi, abbiamo sentito di non essere sole. Camilla Cederna era tra quei giornalisti che vennero a suonare alla nostra porta quella notte, quel primo incontro le cambia la vita.

Quella è la notte della morte di tuo papà?
Quando lei arriva mio padre non è ancora morto. Comunque sì, è quella la notte.
Lei scriverà un libro importante Pinelli una finestra sulla strage. Camilla Cederna, giornalista dell’Espresso, fino a quel momento si occupa di moda e costume. Ha una rubrica che si intitola “Il lato debole” in cui prende bonariamente in giro la sua classe sociale che è l’alta borghesia milanese. Entra nella banca dopo la strage il 12 dicembre. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre viene svegliata dai colleghi e arrivano qua, preceduti da dei giornalisti del Corriere della Sera. Rimane colpita dalla dignità di Licia che non piange e non li fa entrare. E altrettanto rimane colpita dal clima quasi euforico quando in questura partecipa alla conferenza stampa. “Si è suicidato al grido ‘È la fine dell’anarchia’”. “Se fossi stato un anarchico avrei fatto lo stesso”, disse il questore di Milano Marcello Guida, già direttore del confino fascista di Ventotene in cui era stato rinchiuso anche Sandro Pertini. E siamo a ventiquattro anni dalla fine della guerra. I funzionari formati durante il fascismo hanno continuato la loro carriera nell’Italia democratica.

Nell’Italia democristiana, di cui qualcuno ha detto che era una forma diversa di fascismo.
Il discorso si fa complesso. È chiaro che comunque l’Italia è il Paese che esce sconfitto dalla guerra. Pensa a quante basi militari della Nato ci sono ancora adesso sul nostro territorio. Tutto ciò che avveniva in Italia non era una decisione autonoma del governo italiano. Gladio era stato pensato e realizzato ben prima della fine della seconda guerra mondiale, per contrastare un’eventuale invasione comunista. Viene usata per fini interni in questa guerra a bassa intensità, che avrebbe fatto un numero limitato di morti e che è stata portata avanti almeno fino al 1980.

È interessante la tua capacità di avere questa visione d’insieme.
Ma il sole è dall’altra parte della strada dove io agognerei andare. Sto morendo di freddo.

Entriamo nel cortile.
Parliamo un po’ di teatro. Lo amiamo entrambi. Lei collabora scrivendo di teatro con alcune testate on line.

È un cortile molto ordinato, tenuto molto bene.
Esatto. L’ultima volta che sono entrata qua era il 2019, e mi aveva colpito rispetto ad altro in quartiere, come sia un ambiente curato, con un giardinetto, con degli alberi.

Che cosa facevi nella vita?
Boh ho fatto tante cosine e poco di pratico. Ho anche insegnato. Ho studiato filosofia.

Ricordo le serate infinite in primavera estate passate a giocare fino al calar del sole.
Sì, assolutamente. Poi di bambini ce n’erano tanti. Si chiamavano gli amici. “Scendiamo? Adesso? No dopo”. Licia si affacciava e sapeva che eravamo lì e in qualche modo ci controllava.

Anche mia madre controllava dalla finestra se c’eravamo ancora tutti e se eravamo ancora interi.
Che poi era anche una cosa di comunità. Perché eravamo sotto l’occhio vigile di tutte le mamme.

Per i bambini era un mondo diverso.
Per i bambini era sicuramente un mondo diverso. Considerando che tutti avevano delle case estremamente piccole qui c’era questa possibilità meravigliosa di avere un cortile in cui giocare. Ricordo delle famiglie particolarmente numerose con tantissimi figli. Ricordo che la mia migliore amica un giorno che sono andata a casa sua stava cercando di insegnare a leggere allo zio, il fratello della mamma, una persona adulta analfabeta. Avevo meno di otto anni. Così ho scoperto che c’erano persone che non avevano potuto studiare e che addirittura non sapevano leggere né scrivere. Mi ricordo con che entusiasmo mi sono detta. “Sì anch’io insegno a leggere”. Dopo un po’ eravamo stanchissime perché c’era proprio la fatica dell’adulto di acquisire determinati meccanismi.

Ti va qualcosa di caldo?
Sì, certo. Grazie. Qua c’è ancora il murales?

Andiamo a vederlo e ci fermiamo davanti. Claudia ritrova nella memoria i luoghi del passato.

Dove c’è il supermercato in Via Morgantini c’era lì davanti una fiorista con il suo chiosco. Mia madre, quel dicembre del ’69, aveva prenotato l’albero di Natale. Quando è andata per ritirarlo era ormai gennaio. L’alberello non c’era più: “E no signora con quello che le è successo pensavo di non vederla mai più”. La fiorista l’aveva venduto.

A volte sono le cose più semplici a ferirci.
“Pensavo di non vederla mai più”. Cioè sei tu che devi sparire, vergognarti, che devi nasconderti? Licia è sempre andata in giro a testa alta perché lei non aveva nulla di cui vergognarsi. Ce l’ha insegnato. Erano altri che avrebbero dovuto vergognarsi.
In casa tutti cercavano di tenersi insieme. Non era facile per nessuno. Fuori avevi i fotografi che ti seguivano, ti entravano a scuola per fotografarti e poi vendevano le foto a Gente.
Quella notte quando arrivano i giornalisti del Corriere della Sera, mia madre apre uno spiraglio di porta e viene abbagliata dai flash delle macchine fotografiche. Figurati se rispettavano quello che era la vita di noi bambine. L’importante era vendere ai rotocalchi. Immaginati quello che ha subito Licia durante tutto il suo percorso, o anche quello che abbiamo subito noi. Il dolore di una bambina non veniva assolutamente preso in considerazione e rispettato. Non si teneva conto che Pino aveva anche una famiglia. Anche ieri mi sono sentita dire “Pinelli è un simbolo”. Ma era soprattutto una persona, un uomo, aveva degli affetti, aveva una vita. È arrivata la violenza di una morte imposta. Non è stato per nulla semplice non farsi sopraffare. È già tanto avere fatto sì che non fosse la rabbia a prendere il sopravvento.

Però sei passata attraverso la rabbia, immagino.
Secondo me ci passiamo tutti. La rabbia per quello che hanno fatto a Pino, per quello che siamo state costrette a subire. In qualche modo, in qualche momento della tua vita, devi anche passare da quello e trasformarlo. Per far sì che non ti mangi, che non ti divori.

Per me la rabbia è stata un motore. Quando la malattia mi ha portato in carrozzina ho deciso di non farmela rubare. Rivendicavo il diritto alla rabbia.
Dipende. L’importante è che non sia distruttiva. Non nei confronti di terzi, verso sé stessi. Non può essere mero livore, non ti deve consumare, deve trasformarsi in qualcosa di positivo e propositivo. Altrimenti avrebbero vinto quelli che avrebbero voluto condizionartela la vita. Per capirlo ci ho messo anni. Altri vorrebbero decidere quale dovrebbe essere la tua vita. La vita di un anarchico è sbagliata perché mette in discussione la concezione comune? Perché i valori di solidarietà e amore universali non sono conformi a quello che tu vuoi imporre a tutti? Ecco, io ho dovuto elaborare, e anche realizzare che non devo dimostrare niente a nessuno. Cioè, io in questo momento sono Claudia. Sono anche la figlia orgogliosa di Pino e Licia. Ma io non parlo per Pino. Io sono io. Alcuni mi dicono “Ah, tuo padre non avrebbe mai detto, non avrebbe mai fatto. Non sei anarchica come lui, mi sono anche sentita dire “sei una democratica”. A prescindere dal fatto che voglio capire da quale piedistallo qualcuno si permette di dare etichette. Ma soprattutto rivendico l’essere me stessa. E questa cosa non è stata semplice. Sono orgogliosa, lo sono sempre stata, di essere la figlia di Pinelli, non sono solo questo e, soprattutto non mi sostituisco a lui.
Io ho cominciato il liceo e un’insegnante della classe mi ha detto “Tu sei in questa classe perché tu sei la figlia di Pinelli e io ti volevo avere tra le mie alunne”. Penso di non aver odiato mai nessuno come ho odiato quell’insegnante in quel momento. Lì me la ricordo la rabbia. Solo che diventa una cosa distruttiva. Mi dissi “Io la tua materia non la studierò mai. Ti pentirai amaramente”. Poi ero io che mi stavo pentendo amaramente. E quindi ho dovuto fare un ulteriore processo di crescita.

So che hai avuto anche delle polemiche con gli anarchici del Circolo della Ghisolfa.
Succede, diciamo che ci sono sempre quelli che pensano di avere lezioni da insegnare, di essere i più duri e i più puri. Però le nostre scelte non possono essere condizionate soprattutto da chi non cerca il confronto, e riduce tutto a un attacco personale. Io rispetto chi ha fatto tanto, ma il rispetto deve essere reciproco. Insomma.

Sono per quell’insomma.
Si corre sempre il rischio di venire strumentalizzate o di essere accettate solo se non fai ombra ad altri che hanno anche meriti, ma non sempre comportamenti corretti. Diciamo che impari a difenderti dai nemici ma anche dagli amici. C’è chi pensa che come donna sei facilmente strumentalizzabile, c’è chi tenta di tirarti da una parte e chi dall’altra.

Non deve essere stato facile.
Nulla è stato facile. Però non mi piace neanche il vittimismo. È come se battessi sulla tua spalla, e dicessi “Oh poverino. Hai sofferto tanto?”. Ecco, io penso che potremmo usare un bazooka.

Ridiamo.

Nel senso che non facciamo una carriera sul vittimismo. Porti una testimonianza. Perché una testimonianza è un impegno civile importante. Mentre fare la vittima è uno speculare. Eh no. Non è rispettoso nei confronti della storia.

Enrico Baj, “Il funerale dell’anarchico Pinelli”, 1972

Forse è anche per questo che abbiamo scelto questa linea narrativa. Partendo dalla voglia di entrambi di raccontare questo angolo di mondo in cui poi c’è tutto il mondo.
La targa in marmo in via Preneste, dove abitavamo prima era diversa. Riproduceva il quadro di Enrico Baj “Il funerale dell’anarchico Pinelli”.

Tu sei credente?
Non sono credente.

Il personaggio di un mio libro 21 volte Carmela dice “Io non credo in Dio. Credo negli amplessi, credo nel buon vino. E credo che adesso andrò a farmi una doccia”.

Ride.

Hai figli?
Ho due figlie. Martina che ha trentun anni e che è insegnante nelle scuole superiori e Arianna che ha venticinque anni e studia chimica.

Come vivono la loro eredità?
La vivono con consapevolezza. Poi chiaramente sono due persone estremamente diverse. Martina ha sempre fatto moltissime domande fin da quando era piccola. Arianna ne ha sempre fatte pochissime. Entrambe hanno un ottimo rapporto con la nonna. Martina, entrando a casa della nonna quando aveva quattro anni, nota per la prima volta la litografia del quadro di Enrico Baj I funerali dell’anarchico Pinelli. E la domanda è stata “Nonna ma perché quell’uomo cade? Ma chi è? Perché quelle mani non lo trattengono?”. E mia mamma ha detto “Chiedilo alla tua mamma?”.

Tosta la bambina.
Quindi con lei poi c’è stato man mano un cercare di spiegarle le cose anche con un linguaggio adeguato. Con mia figlia più piccola, Arianna, mi sembrava di aver già dato. Mi sono resa conto che Arianna non facendo domande alcune cose non le sapeva proprio. Entrambe hanno portato la storia del nonno agli esami di maturità, elaborandola in maniera diversa. A ogni anniversario loro ci sono, mi stanno accanto. Martina ha fatto anche un percorso di conoscenza e approfondimento su quel periodo con dei ragazzi e ragazze di terza media. Però non voglio parlare di eredità, che sa di imposizione, nel caso vorrei che fosse una scelta libera e consapevole come lo è stata per me

Entriamo al bar La Genzianella.
Parliamo di teatro di disabilità, dei giovani, della necessità di presidiare i territori. Si sommano e accavallano aneddoti e volti del teatro, Serena Sinigaglia, Peter Stein, Maddalena Crippa. Mi racconta del Parenti, della presentazione del libro di Guido Viale “Lotta Continua. Niente da dimenticare”.

Guido Viale, che stimo moltissimo, rivendica la storia di un movimento politico che si è impegnato su tanti temi e che è stato innovativo a livello culturale e sociale. Ammettendo anche dove è naufragato, quali sono state le questioni non affrontate in maniera adeguata.
Questo libro è molto interessante perché ripercorre molto chiaramente il periodo fino al 1976 quando il movimento si sciolse e anche il periodo successivo, le scelte, le derive violente, la vendetta dello Stato nei confronti di chi mise in discussione la tesi ufficiale sulla morte di mio padre con attacchi terribili nei confronti del commissario Calabresi, mirati a farsi denunciare per riuscire a parlare in tribunale della morte, fino a quel momento sempre archiviata, di Giuseppe Pinelli.

Da lì passiamo a discutere dell’omicidio Carlo Giuliani, di Genova dove è stato seppellito il movimento No Global, del potere che giustifica l’uso legittimo delle armi.
Torniamo a parlare di quella notte.

Torniamo sempre lì a quel momento, in cui una donna rimane da sola con due bambine piccole da cercare di preservare, senza il tempo di poter ascoltare il proprio dolore, di piangere perché non bisognava arrendersi. Pochi amici le rimangono accanto, la sostengono, la consigliano. La fatica di trovare degli avvocati, il non capire in un primo momento perchè devi trovarli. “Uccidono mio marito e io mi devo cercare un avvocato? Pensavo di vivere in uno Stato di diritto”. Lei credeva che il fascismo fosse finito. Credeva di vivere in una democrazia. Il libro che scrive insieme a Piero Scaramucci Una storia quasi soltanto mia ha il merito di averle fatto ritrovare la voce. Ci hanno messo due anni a scrivere quel libro. Piero è stato paziente e attento, per Licia è stato faticosissimo, per troppo tempo aveva dovuto controllare ogni sua emozione, ha dovuto reimparare a fidarsi, è stato un percorso lungo e difficile ma rimane anche a tanti anni anni di distanza una pietra miliare, per non dimenticare.

L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina,  DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore)

Le foto sono di Gianfranco Falcone