La storia è fitta di analogie che ingannano, e giochi di specchi. Tendiamo a guardare il presente con le lenti di passati arbitrari, idee blindate, schemi rigidi e troppo spesso il male di oggi è denunciato, criticato, esecrato, esorcizzato facendo appello ai fantasmi di ieri, e non aiuta. Mentre l’invasione russa in Ucraina è giunta al terzo mese e all’orizzonte non si intravede in realtà nessuna via uscita (e nessuna volontà di voltar pagina), l’impressione è che alla Fog of war – inevitabile – si sia sovrapposta una nebbia più fitta e decisamente più ambigua nelle menti, nella coscienza e nel dibattito pubblico, qui in Occidente. La tendenza a giudicare il presente con quelle categorie bloccate nel passato (le analogie scontate con la questione dei Sudeti, le ombre di Hitler e Stalin, lo slogan vergognoso della “denazificazione”, l’evocazione proprio da pensiero magico della stessa categoria di Resistenza) dà la falsa impressione che la Storia ci abbia insegnato qualcosa, e questo magari rassicura ma trae in inganno. Male contro Bene, carnefici e vittime, un prima e un dopo stabiliti un tanto al chilo: la norma è il pensiero binario, non ce n’è un altro. Qualsiasi accenno a dialettiche più intricate, qualsiasi perplessità (concreta, razionale: nessuno ha dubbi, credo, su chi sia l’aggressore e l’aggredito, questo è un fatto), qualsiasi “narrazione” alternativa sono sospetti. Strano modo di stare nella Storia, e di criticarla: dovremmo cogliere la “complessità” del momento, per superarlo, ma già solo pronunciarla questa parola – complessità – sembra un atto di complicità con l’aggressore, e va bandita. Dovremmo cercare soluzioni razionali, dar peso alla “verità effettuale”, salvare le vite, salvare i corpi, e invece ci si trincera in tetragone ma spesso molto ipocrite verità e in certezze che consolano ma non aiutano, e restano pietrificate dallo sguardo di Medusa della Storia, e dal suo orrore.
È un clima tossico (il pensiero binario – avrei voglia di aggiungere – è sempre tossico). Immagino che anche le due lucidissime conferenze di Milan Kundera che Adelphi pubblica con il titolo Un Occidente prigioniero (traduzione di Giorgio Pinotti) potranno essere lette dentro questo schema ricattatorio, semplificante. Nella seconda – un testo del 1983, il muro di Berlino, la cortina di ferro erano ancora in piedi – Kundera parte dai fatti del settembre ’56 in Ungheria, quando i carri sovietici entrano a Budapest. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmette il suo ultimo dispaccio: «Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa». Naturalmente – precisa Kundera – il direttore non voleva dire che i carri russi fossero pronti a «varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest». In Ungheria «era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire».
E allora era precisamente così, non c’è alcun dubbio: in gioco era (anche) il destino dell’Europa, il “nostro” Occidente. Ma dovremmo evitare di trasformare la storia in un mantra, e quasi sessanta anni dopo i fatti di Ungheria, quasi cinquanta dopo quelli di Praga, l’attualizzazione immediata di questi episodi epocali per quanto irresistibile è fuorviante. Quando diciamo che in Ucraina è in gioco il destino dell’Europa, quando ripetiamo come una formula magica che Kiev è “il cuore dell’Europa” tendiamo a consegnare il presente al mito per non guardarlo. Di quale Europa parliamo? Del sogno di Ventotene? Del presente balcanizzato da Brexit già consumate o dietro l’angolo? Della fortezza spaventata e cattiva che si blinda contro i migranti? Del classico vaso di coccio tra le botti di ferro (la Russia, la Cina, gli Usa)? Del “nano strategico” su cui ha scritto un bellissimo “requiem” poco tempo fa Paolo Rumiz, di questa clamorosa irrilevanza politica che può esser data ormai per morta o viva “al massimo come protuberanza dell’America”? Per Kundera, in Un Occidente prigioniero come nell’altra conferenza (La letteratura e le piccole nazioni, del 1967) la grande questione irrisolta era «la tragedia dell’Europa centrale», la necessità di ripensare il destino di quei Paesi fuori dalla cappa oppressiva del comunismo sovietico e dell’irrilevanza. Era possibile ripensare a un cammino autonomo nella storia della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia? Dipende da molte cose, diceva Kundera, dipende soprattutto dalla nostra capacità di mettere in prospettiva le cose e ricollegarci senza ottuso orgoglio nazionalistico al passato per decifrarlo. In qualche modo – osserva in un passo fulminante – la storia ceca è ancora bloccata alla Montagna Bianca, attardata nell’orrore della Guerra dei Trent’anni, ferma al Seicento. Quando alla fine di quel conflitto si definì un nuovo assetto dell’Europa e del mondo con la pace di Westfalia, i cechi, e gli altri Paesi dell’Europa dell’Est, furono esclusi, congelati nel ruolo di “piccole nazioni”, messi ai margini. Se le grandi nazioni europee, dentro una storia “classica”, si sono evolute in un quadro culturale comune «i cechi, che hanno conosciuto in modo alternato periodi di sonno e veglia, si sono invece lasciati sfuggire molte importanti fasi dello sviluppo dello spirito europeo… . Per i cechi nessuna conquista è mai stata incontrovertibile, né la lingua, né l’appartenenza all’Europa». Ma il dramma – aggiungeva Kundera – è che nel frattempo l’Europa è mutata e l’Occidente si è auto-imprigionato in una nuova forma di vita intollerabile: la cultura ha ceduto il suo posto al capitalismo dello svago, e della finanza. «Nel medioevo, l’unità europea si fondava sulla cristianità, e nei tempi moderni sui lumi. Ma oggi? La rimpiazza una cultura dello svago, legata ai mercati e alle tecnologie dell’informazione. Che senso può avere, allora, il progetto europeo?».
L’ultimo passo della conferenza del 1983 è impressionante: «La vera tragedia (dell’Europa dell’Est) non è la Russia, ma l’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo Paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e non sarebbe mai stata capita».
In foto Milan Kundera nel maggio 1968