Il sistema dei bandi per assegnare le risorse ai comuni affinché incrementino i servizi per l'infanzia non sta funzionando. E proprio nei territori dove ci sarebbe più bisogno. Irrisolto poi il problema della mancanza di educatrici. Ecco, secondo la sociologa, tutti i punti critici di una "missione" che non risolve le diseguaglianze

I primi anni di vita sono fondamentali per lo sviluppo del bambino. E gli asili nido e la scuola dell’infanzia sono gli strumenti della formazione considerati ormai essenziali per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. Soprattutto al Sud e nelle isole dove sono quasi inesistenti e dove il tasso di dispersione invece è altissimo. Per indagare le varie cause del fenomeno, il Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza per la prima volta ha promosso una commissione ad hoc di esperti e il risultato è stato un documento di studio e proposta pubblicato nel 2022 in cui l’assenza dei servizi per l’infanzia risulta tra le cause degli abbandoni scolastici precoci. Ma a che punto siamo con la grande operazione messa in piedi dal Pnrr, che proprio per asili nido e scuola dell’infanzia ha stanziato 4,6 miliardi di euro nella “missione 4”? Le notizie non sono confortanti. Anzi. Secondo quanto riporta il Sole 24 ore del 19 agosto, degli oltre 2500 progetti soltanto 900 prevedono la costruzione di nuove strutture e di questi circa la metà al Sud. Gli altri, si legge nell’articolo, riguardano ampliamenti di asili nido e scuole dell’infanzia già esistenti. Ricordiamo che l’obiettivo fissato nel Consiglio europeo del 2002 era di arrivare ad una copertura del 33% dei posti entro il 2010 (mai raggiunto in Italia) e che adesso l’Ue rilancia al 45% entro il 2030. Il rapporto Openpolis/Con i bambini del 2021 attesta che siamo al 25,5%, con 18,5 punti di divario tra Centro-nord e Sud. Eppure i servizi per la prima infanzia sono essenziali anche per promuovere la partecipazione al lavoro delle donne. In sostanza, sono diritti da garantire a tutti e questo porta un significativo cambiamento per tutta la società. E a maggior ragione nelle aree disagiate economicamente e socialmente.
Per fare il punto della situazione abbiamo rivolto alcune domande alla sociologa Chiara Saraceno che da tempo è impegnata, con i suoi scritti e anche in una rete di associazioni, nella battaglia per garantire a tutti i bambini i servizi della prima infanzia e che già su Left  aveva messo in guardia sull’assenza di interventi efficaci da parte dello Stato.

Professoressa Saraceno, frequentare asili nido e scuola dell’infanzia è considerata una importante prevenzione contro la dispersione scolastica, soprattutto in territori disagiati e nel caso di contesti familiari difficili. Sugli asili nido lei da tempo sostiene la necessità di colmare il divario esistente in Italia. Qual è il bilancio in questo momento? I fondi del Pnrr sono stati assegnati ai Comuni che ne sono privi? Sono riusciti a partecipare ai bandi soprattutto al Sud?
La situazione non è rosea. Ci sono stati, a mio parere, errori fin dall’inizio. Invece di verificare in quali comuni o comprensori si era più lontani dall’obiettivo di copertura del 33% e di conseguenza individuare dove destinare prioritariamente i fondi, si è deciso sì di attribuire una quantità di risorse maggiore al Mezzogiorno, notoriamente carente nella disponibilità di questi servizi, ma poi si è affidata la concreta “messa a terra” al meccanismo dei bandi, quindi alla decisione e capacità dei Comuni di parteciparvi. Come se la decisione se garantire o meno la scuola primaria fosse lasciata alla decisione di una giunta comunale.

E il risultato quale è stato?
Il risultato è che proprio i comuni più sguarniti spesso non hanno partecipato ai bandi, per sovraccarico di lavoro, mancanza di personale e professionalità adeguate, per motivi culturali (si pensa ancora che i nidi servano soprattutto alle mamme che lavorano, e dove l’occupazione delle donne in generale e delle madri in particolare è scarsa, i nidi sembrano inutili), per timore di non ricevere nel tempo dallo Stato le risorse necessarie per farli funzionare. Non a caso i bandi per il Sud sono stati riaperti più volte e ciononostante non ci sono state risposte per fruire di tutti i fondi disponibili. Si aggiunga che molti dei progetti presentati erano allo stato di abbozzo e richiedono un lavoro aggiuntivo per diventare operativi, nonostante, tardivamente, sia stata approntata una struttura professionale di accompagnamento ai comuni che ne avessero bisogno. Ora bisognerà controllare strettamente che i fondi non spariscano o non siano destinati ad altro. Si può accettare un ritardo, anche per fare le cose come si deve, ma avendo presente che nel frattempo si possono ulteriormente allargare i divari territoriali nella disponibilità di questo servizio così essenziale per la riduzione delle disuguaglianze tra bambini nelle opportunità di buona crescita, così come si allarga il divario tra la situazione italiana, che arranca a garantire il 33% di copertura a livello nazionale e il nuovo obiettivo europeo fissato al 45% per il 2030. Aggiungo che c’è un altro problema che né il governo precedente né l’attuale hanno messo a fuoco.

Qual è il problema?
Non basta creare nuovi posti nido, occorre anche farli funzionare quotidianamente e anno dopo anno. Se l’ultima legge di stabilità del governo Draghi, avendo definito la copertura del 33% un livello essenziale di prestazione ha anche allocato risorse per la gestione per gli anni a venire (che ovviamente andranno confermate e aggiornate), c’è un grave problema di personale che andrebbe affrontato subito: mancano le educatrici/educatori preparati, perché è una professione non molto considerata, anche a causa del diverso trattamento e opportunità professionali (e condizioni contrattuali) di cui godono le educatrici dei nidi rispetto alle insegnanti della scuola dell’infanzia. Le prime, con la sola laurea triennale, possono lavorare solo nei nidi, le seconde, con la laurea magistrale possono insegnare anche nella scuola primaria. Per avere un numero adeguato di educatrici/educatori il Ministero dell’istruzione, che ha la responsabilità dei nidi, dovrebbe interagire con quello dell’università innanzitutto per sollecitare le università a istituire corsi di laurea dedicati là dove mancano e invece i nidi dovrebbero aumentare e comunque a programmare attentamente le iscrizioni in rapporto agli aumenti previsti. Il settore nidi può diventare uno sbocco professionale interessante, ma deve essere programmato con attenzione. Poi si potrebbe anche discutere dell’opportunità di una carriera unica nell’ambito dello 0-6.

Oltre alle difficoltà da parte dei Comuni dovute alla mancanza di personale e all’organizzazione, c’è anche un gap culturale che impedisce la realizzazione di asili nido? E come si può superare?
Come ho già detto, prevale ancora l’idea che i nidi siano solo o prevalentemente un servizio di conciliazione per le mamme che lavorano. In parte sono concepiti così anche nel Pnrr. In questo modo si sottovaluta il loro essenziale ruolo educativo, non sostitutivo o surrogatorio a quello materno/familiare, ma complementare: importante per tutti i bambini ma in particolare per quelli in condizioni di svantaggio economico, sociale, culturale, inclusi i bambini di origine straniera. Non si aiutano neppure le madri, perché legare l’offerta di nidi all’occupazione materna impedisce alle madri che non sono occupate di cercare un’occupazione, di (ri)mettersi in formazione, di pensarsi non solo come madri. Occorre accompagnare l’aumento dell’offerta di nidi con un lavoro culturale, che persuada i genitori che il nido è una cosa buona per i loro bambini ed anche per loro, come opportunità di confronto e di rafforzamento delle propri capacità genitoriali.

Questo governo a parole parla molto di natalità, hanno organizzato anche gli Stati generali della natalità a maggio, ma al di là dei bonus, lei ritiene che ci sia davvero la volontà di creare dei servizi per l’infanzia? O prevale l’idea di famiglia chiusa in sé stessa con la donna che ritorna a fare l’angelo del focolare?
Credo che sulla necessità di aumentare l’offerta di nidi il consenso sia abbastanza trasversale, così come trasversale è la diversità delle motivazioni. Non credo che il problema con l’attuale governo sia che si vuole far tornare la donna a fare l’angelo del focolare, anche se non vedo grandi passi avanti sulle politiche di conciliazione ed anche quelle di parità salariale e non solo. Piuttosto, per rimanere ai bambini, vedo che c’è una certa difficoltà a considerare l’importanza della co-genitorialità, del coinvolgimento dei padri fin da subito.

Venendo al tema della lotta alla dispersione scolastica, il 6 ottobre EducAzioni, la rete di cui lei è portavoce, presenterà a Roma un Vademecum sui “patti educativi di comunità”. Che cosa prevedono in concreto per contrastare la povertà educativa?
Prevedono la creazione di alleanze territoriali, con e attorno alla scuola (inclusa quella dell’infanzia e i nidi), tra soggetti diversi, pubblici, di terzo settore, privati, per arricchire il curriculum educativo delle bambine/i e adolescenti specie nelle aree più svantaggiate. Si tratta d esperienze già in atto e diffuse, ma che mancano di un quadro normativo e di governance che garantisca continuità. Perché diventino una politica educativa normale proponiamo tre linee di azione.

Può spiegare nei dettagli?
Innanzitutto la costruzione di un sistema di governance integrato che permetta la collaborazione sinergica, strategica e operativa, tra i diversi soggetti impegnati nell’ambito delle politiche educative, del lavoro e del sociale, prevedendo e rafforzando processi che includano i ragazzi e le ragazze come protagonisti attivi nella definizione delle politiche che li riguardano. Il secondo punto riguarda un cambio di paradigma nelle procedure e negli strumenti di erogazione delle risorse finanziarie: dal bando competitivo a percorsi di co-programmazione e co-progettazione, in un rapporto paritario tra i diversi attori della comunità educante, che includano anche i ragazzi e le ragazze; sul rafforzamento dei soggetti e delle esperienze già riconosciute; e per l’identificazione di aree più vulnerabili, secondo dati statistici. E infine proponiamo un rafforzamento delle risorse a disposizione dei Patti Educativi attraverso un fondo ordinario, l’ampliamento quantitativo delle risorse economiche e l’aggiunta di alcuni criteri di assegnazione per l’erogazione di risorse ordinarie alle scuole.

Sul tema della dispersione scolastica e sui problemi della scuola che sta per ripartire, vedi il numero di Left in uscita l’8 settembre, in edicola e online

Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.