Di fronte a quello che sta succedendo nel territorio che fino a prima del 1948 si chiamava Palestina, ogni persona informata e con questo intendo che abbia approfondito la “questione Palestinese” e che ha visitato i Territori, che ne abbia studiato la storia e che ha visto la situazione della popolazione a Gaza e in Cisgiordania oggi, penso abbia difficoltà, come me, a trovare le parole giuste per parlare di questo conflitto. Una guerra vede sempre due eserciti contrapposti, uomini in armi che hanno, almeno a parole, ma ovviamente sui fatti lo stesso diritto a difendersi. In questo caso come fa notare giustamente Pier Giorgio Ardeni su Left del 10 ottobre 2023 e ugualmente Luigi Ferrajoli sul manifesto «a un atto di guerra – quale soltanto gli Stati e i loro eserciti regolari… possono compiere – si risponde con la guerra. A un crimine, sia pure gravissimo, si risponde con il diritto, cioè con l’identificazione dei colpevoli»
Questi due punti sono imprescindibili: un conflitto richiede le due parti armate più o meno adeguatamente e se invece una delle due parti è soltanto un gruppo più o meno nutrito di volontari com’è «Hamas, che non ha un esercito e per quanto sia un’organizzazione armata il suo non è l’apparato militare di uno Stato. Certo, viene finanziata dall’Iran e da altri, ma essa è comunque un’organizzazione che recluta volontari, animata da un’ideologia fondamentalista ma, in ogni caso, essa non è il corpo armato di uno Stato legittimo» ecco che viene a mancare la ragione che giustifica una guerra e soprattutto una guerra che colpisce una popolazione inerme di 2,2 milioni di persone che, per chi conosce la situazione, vive da moltissimi anni sotto un brutale assedio da parte di Israele. Nulla giustifica l’operato di Hamas, anche se in qualche modo ci dovremmo anche chiedere come mai questa organizzazione fondamentalista stia prendendo sempre più piede e raccolga sempre maggiori adesioni, soprattutto nel territorio di Gaza, che fingiamo di non saperlo, ma è un carcere a cielo aperto, controllato dall’esercito che si narra sia il più etico, di un Paese che si dice essere il più democratico del Medioriente.
Nulla passa i valichi che Israele non voglia, nessun bene primario, acqua, elettricità, carburante, medicinali, macchinari o materiale da costruzione, e questo da sempre. Nessun palestinese esce dal valico verso Israele o dal famoso valico verso l’Egitto che viene aperto e chiuso a seconda delle alternanti contingenze politiche e speculative che questo Paese impone. Certamente qualcosa passa per i tunnel, che continuano ad essere tollerati in quanto sono fonti di proventi per i Paesi che li “ospitano”. Ora si spargono colate di cemento a chiudere i passaggi, un po’ come chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti. Colate che continuano a dimostrare che Gaza è sotto assedio e che o in un modo o nell’altro si cancellerà dalla carta geografica.
Per l’attività che ho per molti anni espletato, ossia organizzare un progetto culturale sul cinema, legato alla Palestina, ossia il Nazra Palestine short film festival, che tende ad aprire un dibattito, attraverso questa arte, sulla situazione in Palestina, coinvolgendo giovani registi con molte idee e cose da dire, ma molto spesso con poche possibilità di produrre ed esportare le proprie opere, mi sono trovata nella difficoltà e imprevedibilità di ottenere i visti (non facili da ottenere malgrado tutte le garanzie che cerchiamo di presentare al nostro consolato) per far uscire da Gaza alcuni registi per farli assistere al festival e alle premiazioni, e trovarli bloccati a Rafah per giorni e giorni, cosa che potrebbero evitare se pagassero una gabella di migliaia di euro, alla parte aguzzina egiziana.
La narrazione che passa è che la popolazione di Gaza se l’è cercata, che fare combutta con i terroristi di Hamas ti fa diventare terrorista e vieni trattato alla stregua di “animali umani”» (così il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant li definisce) e pertanto non è un problema se Israele, per la sua sicurezza, si permette di assetare, affamare e far morire di stenti un’intera popolazione prigioniera di uno Stato che considera uomini, donne e bambini palestinesi, alla stregua di animali o di subumani. Solo l’Onu lancia, con flebile voce, un vago monito, che resta ovviamente inascoltato.
A sentire tutti gli esperti, i giornalisti, i capi di Stato che in questi giorni si prodigano in dichiarazioni ipocrite e superficiali, tutte allineate al sostegno di Israele e ai diritti di difesa del suo territorio, si dimenticano o fingono di dimenticare che quel territorio ad onor del vero non era proprio di questo Stato e che nei campi profughi (che non so in quale altro Paese si possano trovare così numerosi e affollati) siano ospitati, all’interno del loro stesso territorio. Pure Gaza è un grande campo profughi, con la differenza che in questo caso è un carcere con nessuna possibilità di comunicare con l’esterno. In tutti questi campi ci sono palestinesi espulsi dalle loro terre e dalle loro case, di cui conservano ancora gli atti di proprietà e le chiavi di ferro ormai arrugginito. Da 80 anni la ferita suppura, il bubbone cresce, e la possibilità di raggiungere una pace giusta non potrà mai sussistere. Inutile ripetere la storiella dei due popoli e due Stati perché chiaramente a causa degli insediamenti che crescono (illegalmente) nel territorio della Cisgiordania, lo Stato di Palestina, se mai esisterà, non avrà nessuna continuità territoriale oltre al fatto che Israele
protrarrà l’occupazione militare continuando a terrorizzare e molto spesso uccidere con la buona scusa di proteggere i propri coloni.
Non riempiamoci ancora la bocca con vecchi slogan ormai talmente obsoleti e dannosi che forse nemmeno più la propaganda più costosa del mondo foraggia ancora, ci sono ben altre logiche, ben altre opportunità per lasciare i palestinesi senza voce e credibilità. D’altra parte i palestinesi non hanno una leadership politica credibile sia che si pensi ad Hamas oppure all’Anp, già molto compromessa per tante ragioni che sarebbe lungo enumerare, forse i leader più credibili sono morti oppure in carcere, ma certamente non sono in grado di coagulare le forze più integre e costruttive della popolazione palestinese in una lotta di
liberazione che dovrebbe avere uguale diritto e giustificazione di altre realtà. L’idea più praticabile sarebbe una resistenza (pacifica?) che avrebbe maggior possibilità di essere praticata in tempi lunghi e che potrebbe conquistare l’opinione pubblica internazionale ad una causa del tutto legittima in una situazione di disparità di potenza economica, militare e propagandistica.
Culturalmente la Palestina non è seconda a nessuno, ci sono forze vitali artistiche e intellettuali invidiabili, che però emergono meglio nella diaspora, dove è più facile evidenziare le eccellenze. Oggi questo territorio vive di economia d’occupazione, di compromessi con l’occupante e di sogni senza possibilità di realizzazione, non conosce la libertà di movimento e l’isolamento di cui il muro e i checkpoint fissi o mobili e i valichi posti da Israele ne sono l’odioso esempio, ne danneggiano l’ossatura portante, in pratica rendono il bubbone sempre più purulento. Quel che dice Edward Said in Orientalismo, parlando di violenza che comunque fa parte di noi è che il problema non è saldare una profonda spaccatura aperta fra i popoli, ma di tessere le maglie per una comprensione che ha bisogno ancora di molto tempo in un momento storico in cui il tempo sembra non esserci. Dove la violenza sembra l’unica risposta dell’umano all’umana insofferenza.
L’autrice: Franca Bastianello è direttrice artistica del Nazra Palestine short film festival
Nella foto: locandina del film Gaza di Garry Keane e Andrew McConnell presentato al Nazra Palestine short film festival
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