Le tecnologie dell’informazione stanno ampliando a dismisura i settori dove la disponibilità e l’elaborazione dei dati riveste un ruolo centrale. Accanto a questo fenomeno ormai ben noto, la crisi finanziaria esplosa nel 2008, l’emergenza sanitaria e il riaccendersi delle tensioni internazionali hanno imposto un ritorno dell’intervento governativo nell’economia. Questi sviluppi hanno condotto ad una centralizzazione dei luoghi del potere, sia perché la guida di questi imponenti sviluppi tecnologici è nelle mani di un pugno di colossi informatici, sia per il ruolo che i grandi attori globali stanno svolgendo nello scontro per il controllo delle catene globali del valore, delle tecnologie e delle materie prime per esse necessarie. (in proposito rimando qui al mio articolo L’invasione dell’Ucraina e la crisi del neoliberismo sono due facce della stessa medaglia).
Un potere sempre più concentrato dispone di mezzi innovativi per il controllo sociale e il rafforzamento del potere stesso. Certo, la tendenza qui delineata non è univoca. Le democrazie occidentali sono scosse da una crisi profonda, mentre si aprono anche grandi opportunità per uno sviluppo umano basato sulla diffusione della conoscenza.
Sembra oggi riproporsi su basi nuove quel contrasto dell’inizio dell’Ottocento che vedeva da un lato la crescita della potenza produttiva e della concentrazione della ricchezza, dall’altro quella miseria crescente della classe operaia che ha ispirato le analisi di Marx e di Engels.
Nei suoi comparti più avanzati, la società industriale di oggi non è quella di allora. Essa sfrutta non tanto la forza lavoro, ma l’ingegno umano. Il valore delle imprese tecnologiche, infatti, risiede in una serie di elementi immateriali quali brevetti, avviamento, marchi, banche dati, programmi. Il loro capitale dunque non è più costituito in prevalenza da macchinari prodotti in precedenza dal lavoro manuale (nella terminologia di Marx «lavoro morto» che impiega lavoro vivo); esso invece cerca di catturare la conoscenza di ingegneri e programmatori, come anche i dati degli utenti che forniscono informazioni su di loro e sul mondo circostante. Certo, anche in precedenza tecnologia e scienza avevano un peso decisivo, ma oggi, in una formula, i comparti più avanzati di questo nuovo capitalismo non producono merci a mezzo di lavoro e merci, ma di informazioni a mezzo di informazioni.
Queste tecnologie sostituiscono e potenziano dunque non il lavoro fisico, ma alcune funzioni mentali specificatamente umane. Fino a che punto possono assorbire conoscenze e pensiero? Quali sono i rischi del loro impiego ormai così diffuso? E infine, possiamo lasciare a società private un potere così esteso? La letteratura in materia è sterminata.
Al di là delle potenzialità, dei limiti e dei rischi che ogni analisi attenta può rilevare sull’uso dell’Intelligenza artificiale (IA) in specifici settori, la crescita delle sue applicazioni suscita entusiasmi, deliri e profonde angosce. Alcuni non vedono confini alle funzioni che le macchine potranno svolgere, prefigurando un futuro nel quale gli esseri umani saranno superflui. Kurzweil, capo del settore ingegneristico di Google, prevede anche che sarà possibile caricare la propria coscienza in rete, sconfiggendo così la morte, e spera di non morire prima di poter usufruire di questo servizio della sua azienda.
Elon Musk, il 2 novembre scorso, al vertice mondiale sull’AI ha affermato che presto disporremo di qualcosa che, per la prima volta, sarà più intelligente del più intelligente degli esseri umani: dunque, forse, meglio esser governati da questo qualcosa che da noi. Talvolta invece compaiono previsioni nefaste per l’esistenza stessa della nostra specie. Non è chiaro quanto tutto questo faccia parte di un battage pubblicitario finalizzato ad accrescere il giro d’affari, e quanto invece sia frutto di genuine speranze e paure.
A ciò si contrappone una visione, anch’essa diffusa seppur minoritaria, che invece sottolinea l’impossibilità di riprodurre artificialmente il pensiero umano. Ora, per superare affermazioni di principio sulla possibilità o sulla impossibilità di detta riproduzione, è necessario definire esattamente in che cosa le macchine siano diverse da noi. Sciogliere questo nodo è rilevante non solo sul piano intellettuale, ma anche per ogni discussione su come l’IA possa essere impiegata in modo proficuo, e quando invece costituisca un rischio, oppure una fonte di arbitrio, dominio e sfruttamento.
La prima considerazione in proposito è piuttosto ovvia. Il pensiero è inscindibile dalla vita, mentre le macchine vita non ne hanno. Forse per affrontare la questione è necessario essere atei, cioè rifiutare quella scissione tra corpo e pensiero traducibile in termini di hardware e software. Detto questo, in che modo il corpo è legato al pensiero? Il legame tra pensiero e corpo va individuato nella formazione delle immagini. Abbiamo qui un nodo filosofico di notevole rilievo.
Con Cartesio il razionalismo ha negato l’importanza delle immagini. L’immaginazione, nota Cartesio, è ciò che nella mente è più vicino al corpo, dunque allontana la ragione dalle sue certezze. Egli riteneva che la principale fonte di errori nel modo di ragionare fosse costituita proprio dal fatto che da bambini siamo portati a sentire e immaginare. Con l’illuminismo si è avuto una parziale rivalutazione della sensibilità, ma nello studio della mente non è mai stato riconosciuta la funzione decisiva delle immagini nel pensiero. Così, trascurando le immagini, il pensiero può essere ridotto a manipolazioni di funzioni numeriche e di simboli privi di contenuto, cioè alle funzioni svolte dalle macchine.
La ricerca sulle immagini è particolarmente complessa. Massimo Fagioli fa coincidere la prima immagine con la prima forma di consapevolezza di sé derivata dalla memoria del contatto della pelle con il liquido amniotico della condizione intrauterina. Essa non è una figura ripresa dal mondo circostante, ma appunto una memoria che forma un’immagine interiore. Successivamente, con il coinvolgimento di tutti i sensi, nella mente del neonato si formano delle immagini indefinite del suo vissuto cariche di senso e di contenuto. Senso e contenuto dipendono dall’elaborazione, da parte del neonato, degli affetti presenti nei rapporti con chi lo accudisce. Infine, in una fase più evoluta, questa «capacità di immaginare» fornisce una consapevolezza di sé e del mondo sempre più precisa, che precede il linguaggio verbale. Un bimbo distingue un cane da un gatto, e un albero da un fiore, non perché sia stato istruito in proposito, come avviene per il programma di un computer, né a seguito di una serie innumerevole di tentativi ed errori, come avviene per i sistemi che utilizzano le reti neurali, ma perché, dopo aver visto, dimenticato e forse sognato alcuni cani, gatti, alberi e fiori, si è formata nella sua mente l’immagine dell’oggetto. La mia piccola figlia, quando articolava ancora solo poche parole, ha indicato con il ditino, in un fumetto, un cane alla cassa di un supermercato con un fiocchetto in testa che aiutava una commessa a servire i clienti, pronunciando la parola cane. Non possiedo un canile e lei avrà visto pochi cani per strada, eppure non ha avuto dubbi che quello, sebbene in un contesto insolito per un animale, fosse proprio un cane. Anche se non sappiamo esattamente cosa succeda sul piano neurologico nel nostro cervello (ricordiamo che la retina che registra le figure è materia cerebrale), il passaggio tra l’oggetto e la parola va rintracciato nella formazione dell’immagine. L’immagine non è la figura dell’oggetto, né una collezione di fotografie, ma è pensiero, è un’invenzione. Non esiste nella realtà il cane, esistono invece diversi tipi di cani, da cui il pensiero estrae i tratti essenziali che caratterizzano il cane. Nessuna fotografia e nessuna funzione matematica – dunque nessun computer – può rappresentare al contempo un pechinese e un alano, mentre l’immagine può dar conto della loro uguaglianza e della loro diversità. L’immagine è anche carica di contenuti affettivi: l’immagine che abbiamo di una persona non è legata ai suoi tratti somatici, ma alle qualità di quella persona; essa può essere ad esempio affettiva, intelligente, generosa o all’opposto stupida, priva di affetti, violenta. È l’immagine inoltre che ci fa “vedere” che non è la stessa cosa sostituire una macchina perché si è rotta e sostituire un partner perché si è ammalato o ha perso il lavoro. Ma la capacità di immaginare ci consente anche di immaginare dei mondi e degli oggetti del tutto diversi da quelli che esistono nella realtà. Di qui la produzione artistica e la scoperta scientifica, ma anche le spinte ideali e l’evoluzione sociale, che non dipendono certo dalla realtà oggettiva delle cose. Nella scienza un programma informatico può evidenziare nessi inaspettati tra variabili analizzando una mole immensa di dati, ma non interpreta il significato di quei nessi, né propone una diversa visione delle cose. U
Un computer potrà essere istruito a disegnare alla maniera di Van Gogh, di Picasso, o anche a comporre poesie imitando questo o quel poeta: questo avviene perché è stato nutrito di immagini e di testi dei quali riproduce determinate caratteristiche. Un computer caricato con tutti i quadri della pittura universale fino all’Ottocento non potrà però produrre un quadro cubista, perché il cubismo è frutto di un salto creativo e non è un’elaborazione di stili precedenti.
Vi è un passo ulteriore da compiere. La spinta a comprendere e modificare la realtà circostante, come quella a compiere gli atti creativi dell’artista e dello scienziato, è legata ad un’intenzione, spesso non cosciente, che ci muove nel rapporto col mondo.
Nell’essere umano, in breve, non vi è neutralità: ci rapportiamo al mondo sempre con un’intenzione, che può essere orientata a procurare il benessere altrui, a perseguire il nostro, e talvolta anche a distruggere. L’intenzione è legata alla sorte di quell’immagine interna della nascita che nei rapporti può svilupparsi, ma talvolta può andare incontro a distruzione rendendo l’individuo violento. Non è questa la questione che affronteremo qui, che è di pertinenza della psichiatria. Il punto è che questa assenza di neutralità ci deve indurre a prestare molta attenzione alle scelte che si compiono quando si hanno ripercussioni sui nostri simili perché l’uso di queste tecnologie, in molti ambiti, può consolidare pregiudizi e discriminazioni, come anche ledere diritti fondamentali dell’individuo (Vedi:Intelligenza artificiale, l’etica come specchietto delle allodole).
Tornando al nostro tema, la finalità del capitalismo è la massimizzazione del profitto, finalità che prescinde dall’uso di una persona, una materia prima o una scoperta scientifica. Pericolose pertanto non sono le tecniche, ma questo annullamento della differenza tra persone e cose spesso coperto da obiettivi quali l’aumento della produzione e l’efficienza, o dall’idea che le macchina farebbero delle scelte migliori delle nostre. Ma essere “neutrali” tra l’uso di una persona e di una cosa è il presupposto di ogni violenza, proprio perché questa neutralità è dovuta all’assenza di quell’immagine interna che ci fa star male se esercitiamo soprusi nei confronti di un essere che riconosciamo simile a noi.
Il capitalismo si è sviluppato assorbendo e sfruttando il lavoro, e la rivendicazione della dignità del lavoro ha segnato tutto l’Ottocento e il Novecento.
Oggi, in più del lavoro, la sfida riguarda il pensiero e la creatività. La società non è una macchina orientata alla produzione e al profitto il cui funzionamento potrà essere affidata a dispositivi sempre più sofisticati e “intelligenti”. L’errore di ritenere che gli uomini possano essere sostituiti dalle macchine non è un errore sugli aspetti tecnici dell’IA stessa, ma è un errore su cosa siamo noi in quanto esseri umani. L’errore ha radici antiche, e il suo superamento è preliminare per qualsiasi uso della tecnica che costituisca un fattore di progresso e non un pericolo per il nostro futuro.
Andrea Ventura ha curato il volume Il pensiero umano e l’intelligenza artificiale (L’Asino d’oro edizioni) che sarà presentato il 24 novembre negli spazi della Fondazione Basso, a Roma