La ferocia nella crisi del patriarcato, con radici antiche e consolidate, fa da sfondo alla tragica slatentizzazione della malattia mentale che troviamo nei femminicidi. Come se fosse una immagine speculare: è la società che ammala i rapporti privati o i fatti privati riflettono la società malata?

Giulia non è morta per il patriarcato. Il patriarcato non uccide fisicamente, al patriarcato le donne servono vive. Il patriarcato esiste fintanto che le vite delle donne si possono gestire: nelle case, nei luoghi di lavoro, nelle riduzioni salariali, nei ruoli istituzionali. E finché persiste questo sistema omeostatico, perché uccidere?

Su un piano storico la rivoluzione femminile, dal diritto di voto del 1946 in poi, è stata relativamente recente; basti pensare che la legge sul diritto di famiglia è del 1975,la fine de matrimonio riparatore ed il delitto d’onore sono dell’1981, il delitto di stupro è considerato reato verso la persona soltanto nel 1996, e ci rendiamo conto che queste conquiste sono avvenute non tanti anni fa. Cosa ancora più seria è il carattere precario di questa rivoluzione che per i successivi 40 anni è stata interrotta; è solo nell’ultimo decennio che si sente nuovamente parlare di movimenti al femminile, e in tempi recentissimi le rivoluzioni in medioriente confermano la disperazione in cui versano le donne.

La storia degli uomini è invece più lunga e stantia: il patriarcato esiste da molto tempo. Riguarda questioni religiose (non è forse patriarcale la leggenda della creazione di Eva da una costola di Adamo? O le gravi costrizioni delle donne islamiche?), culturali (si pensi al pater familias, per dire di un uomo custode della gestione della famiglia, con un assetto razionale, freddo, e controllante sulle donne) e si arriva ai giorni nostri in cui, fortunatamente non del tutto ma per la maggior parte, le grandi cariche pubbliche, i ruoli di potere e gestionali sono ancora appannaggio degli uomini. Anche nel privato si riflette la strisciante sopraffazione al maschile molto spesso mascherata dal cordiale perbenismo di chi sa benissimo come controllare la situazione. Il flebile declino del potere patriarcale si intravede soprattutto nel mondo dei giovani e dei neopadri, privi di coordinate per rifondare una identità maschile. E se le donne per un verso si ribellano al sistema culturale, attratte dall’idea di emancipazione e costruzione di una nuova identità, dall’altro verso ne sono spaventate: sia da un probabile scompenso dei coevi maschi, ma soprattutto, credo, da una propria personale idea di autonomia femminile.

Il primo problema quindi è socio-culturale. Viviamo una fase sanguinosa di transizione della cosiddetta “legge dei padri” che interessa entrambi, sia uomini che donne, sbilanciati in questa epoca storica e con una identità nuova ancora da trovare. La ferocia nella crisi del patriarcato, con radici antiche e consolidate, fa perfettamente da sfondo alla tragica slatentizzazione della malattia mentale che troviamo nei femminicidi. Come fosse una immagine speculare, ci chiediamo: è la società che ammala i rapporti privati o i fatti privati riflettono la società malata?
Non può essere il patriarcato ad uccidere nel corpo, esso uccide semmai lentamente, giorno dopo giorno, nella mente, perché controlla, maltratta, gestisce seguendo il codice di una malata legge dell’uguaglianza “se io fallisco devi fallire anche tu”. E il fallimento è nella ricerca della realtà umana. Ma quello che uccide nel corpo non può esistere solo per la cultura, perché se così fosse, il tasso di femminicidi sarebbe di gran lunga più alto! Se la violenza psichica a vari livelli è sempre indicatore di malattia, e molte volte è manifesta attraverso il controllo, la gelosia, lo stalking che sottendono tutti una dinamica di rapporto alterata, sappiamo bene che la gradualità psicopatologica che raggiunge l’omicidio si svolge con qualcosa in più. L’annullamento infatti è una pulsione prima mentale, ma in questi casi, dopo, avviene una scissione totale tra mente e corpo, con la perdita completa degli affetti e l’altra presunta amata, che di solito propone la separazione, diventa una minaccia talmente forte all’integrità falsa dell’Io (razionale) che “l’annientamento” per dirla come Nietzsche, resta l’unica difesa. Devi morire perché mi fai troppo male, perché la tua realizzazione non corrisponde alla mia. Si tratta di un vallo psicotico e direi sadico che poi si richiude, si torna ad essere lucidi e razionali come prima. Un click della mente, che arriva in maniera apparentemente inaspettata ma che sicuramente è preceduto da uno stimolo, non si può attribuire soltanto alla cultura dominante, ma ad una particolare forma di dissociazione psicotica che per fortuna non è presente in chiunque.

Possiamo dire che la crisi del patriarcato rifletta questo “smarrimento” maschile quando una donna non si sottomette e non si rassegna… Allora scatta il despota feroce che non permette a nessuno la libertà.
Perché se è vero che esiste l’uguaglianza alla nascita, che riguarda per tutti la creazione della prima immagine mentale e del primo Sè in rapporto con gli altri, non è altrettanto vero che si nasce liberi, la libertà è un percorso di autonomia che si deve costruire, ha bisogno di tempo, di rapporto, di investimento sessuale della realtà, e di rifiutare ciò che lede l’identità. Solo così si diventa liberi. Si ma da che cosa? Dalla malattia mentale. Diceva Fagioli che guarire significava raggiungere non solo la nascita ma anche lo svezzamento, “come cessazione di un rapporto di soddisfazione del desiderio in una relazione sessuale” in cui la vitalità tiene insieme le immagini e non le dissocia. Con lo svezzamento si realizza la propria identità sessuale, maschile e femminile, che prima non c’è. La nascita da sola non basta per essere immuni dalla malattia, bisogna aver fatto lo svezzamento attraverso ripetuti rapporti di desiderio soddisfatti. Poi non ci si ammala più.

La morte di Giulia ci ha rappresentato qualcosa di forte. Ci addolora di più, per i suoi 22 anni, il viso fresco e pulito di chi la vita ce l’aveva davanti e sembrava amarla davvero. Nonostante la morte della madre continuava a disegnare, a studiare e a sperare in un rapporto migliore con un uomo. Penso che Giulia ci significhi qualcosa di vicino alla nascita, qualcosa che ha fatto eco nel nostro animo perché aveva l’innocenza di chi non è riuscito a vedere e sentire fino in fondo il vuoto, la frammentazione, l’inganno, l’anaffettività nell’altro, e non ci può credere che un essere umano degno di questo nome possa arrivare a tanto. Allora si è fidata, ma era in pericolo. La storia di Giulia non deve sfumare. Ha scosso tutta l’Italia, che si sta interrogando forse per la prima volta su come andare a fondo nei rapporti uomo donna senza normalizzare o giustificare con falsi messaggi le dinamiche francamente opprimenti.
Mi torna alla mente il racconto di un cartellone innalzato da un giovane uomo con la sua compagna durante la manifestazione del 25 Novembre scorso «Uomini e donne, insieme, per un cambiamento possibile».

Daniela Aiello è psichiatra e psicoterapeuta