Per comprendere chi sono gli hikikomori, è importante distinguere la solitudine dall’isolamento, il vissuto che è fisiologico dal ritiro sociale che può essere patologico. Ne parla la psicologa coautrice del libro "Hikikomori. La perdita della socialità"
Quest’anno la giornata mondiale della salute mentale è stata dedicata agli adolescenti e, insieme all’emergenza, dopo la pandemia, si è parlato di casi di autolesionismo, depressione e tentativi di suicidio e anche di hikikomori, adolescenti che non arrivano quasi mai al pronto soccorso, né ai reparti di psichiatria poiché vivono autoreclusi nella loro stanza. Di fondamentale importanza è stato dare loro visibilità e, soprattutto in questa occasione, la giusta collocazione nella psicopatologia.
Nel libro Hikikomori. La perdita della socialità (scritto con le psichiatre Alice Dell’Erba e Francesca Padrevecchi), edito da L’Asino d’oro, abbiamo proposto un cambio di prospettiva in tal senso, passando da quella sociologica, che considera il fenomeno hikikomori una ribellione alla pressione della società, ad una medica, che vede il ritiro sociale come un sintomo associato a patologie psichiatriche. Partendo dalla fisiologia dell’essere umano e dalla considerazione della socialità come naturale tendenza al rapporto interumano fin dalla nascita, ne deriva che la sua perdita non può essere considerata scelta ma conseguenza di una perdita di sanità. In questa ottica si pone la distinzione tra solitudine e isolamento, per evidenziare la dimensione della solitudine, che appartiene a tutti gli adolescenti e quindi alla fisiologia, dall’isolamento che si associa invece al ritiro sociale.
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