Non si è ancora spenta l'enorme onda emotiva per l'assassinio di Giulia Cecchettin. Facciamo in modo che la vitalità delle manifestazioni di massa si trasformi in cambiamento vero. Per questo non serve inasprire le pene come vuole la presidente del Consiglio Meloni (che accelera su premierato e panpenalismo), serve una rivoluzione culturale

Il crudele, agghiacciante, femminicidio di Giulia Cecchettin ha scosso il Paese, interrogandoci tutti profondamente, come forse non era mai accaduto prima. Tanto che migliaia e migliaia di persone, di tutte le età, sono scese in piazza, non solo a Roma, ma anche in tante altre città, per dire basta alla violenza di genere. D’un tratto si è rotto il guscio di quella sottile indifferenza che accompagna la macabra contabilità dei femminicidi che si susseguono implacabili quasi ogni giorno. Anche mentre scriviamo la scia di sangue non ha tregua. Dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, Vincenza Angrisano è stata accoltellata dal marito davanti ai figli e Meena Kumari è stata uccisa dal marito con una mazza da cricket. Non vogliamo che tutto questo passi sotto silenzio.
L’uccisione di Giulia ha suscitato un’onda di emozione particolare anche per la giovane età dei due ragazzi. Forse perché Filippo Turetta, suo ex fidanzato e reo confesso, appariva come un “normale” e insospettabile bravo ragazzo. Forse e soprattutto perché Giulia è l’immagine bella di una giovane donna che aveva scelto di separarsi da una relazione ricattatoria e ossessiva, una ragazza che si stava realizzando come donna e nella vita sociale laureandosi.

Sui media mainstream, fin qui, non si è voluti andare a fondo interrogandosi sulla gravissima malattia mentale di chi, avendo perso ogni dimensione affettiva, in un deserto interiore, pianifica lucidamente di uccidere la compagna proprio perché ha scelto di realizzare se stessa. Parlare di malattia mentale viene letto quasi come fosse una giustificazione, auspicando forse una giustizia vendicativa che chiuda in cella il folle reo e getti le chiavi. Cui prodest? Se si aprissero gli occhi su questo dato di fatto non ci sarebbe forse maggiore possibilità di fare prevenzione ed evitare altri femminicidi? Su questo delicato tema lascio la parola agli psicoterapeuti e psichiatri che autorevolmente scrivono su questo numero di Left e continuano a sviluppare il dibattito sul nostro sito.
Da giornalista noto che, a sinistra, si accetta al più che il femminicida venga definito “figlio del patriarcato”. A destra neanche quello. Per la destra la cultura patriarcale non esiste pur incarnandola pienamente.

Nonostante questo alzare barricate sui media verso ogni tentativo di indagine più profonda del fenomeno dei femminicidi qualcosa emotivamente è passato nella società civile, nella parte più sensibile del Paese che si è riversata, e non in modo rituale, per le strade il 25 novembre scorso in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Personalmente non ho ricordo di manifestazioni così imponenti in Italia da molti anni. Se non tornando con la memoria al 2002, a Roma, quando in piazza scese la Cgil allora guidata da Sergio Cofferati. Ma questa volta c’è in gioco qualcosa che – oserei dire – va oltre la fondamentale battaglia per i diritti sociali e civili. Mai era stata così ampiamente espressa in Italia questa urgenza di dire un gigantesco no collettivo alla violenza contro le donne.
Volendo cercare qualcosa analogo per impatto emotivo il pensiero va alle oceaniche manifestazioni di Black lives matters, negli Usa, dopo l’assassinio di George Floyd che ha fatto traboccare il vaso dell’inaccettabile razzismo della polizia e dello Stato nordamericano. Anche in quel caso non perché il deliberato assassinio di Floyd fosse l’unico, ma forse proprio perché l’ennesimo di marca razzista.

Dietro allo choc, dietro all’ondata di emozione, dietro alle manifestazioni dal basso c’è anche un dato politico. La marea di persone che ha invaso pacificamente le piazze del nostro Paese ci parla di una società civile che è molto più avanti della classe politica di governo, che – non a caso – ha disertato le manifestazioni, dichiarando così palesemente la propria distanza dalla lotta delle donne contro la violenza di genere.
Non partecipando alla manifestazione, la presidente del Consiglio ha reso ancor più chiaro – non che avessimo dubbi – che non ce ne facciamo nulla di una premier donna se non lavora per decostruire una cultura millenaria che opprime, nega e annulla le donne. Ma anzi rinfocola la retorica del sacrificio delle donne in nome di Dio, patria e famiglia. Non ci serve a niente la rottura del cosiddetto tetto di cristallo realizzata in chiave individualistica da Meloni che ama farsi chiamare il presidente del consiglio e che nelle politiche di governo considera le donne degne di diritti solo se madri.

Il governo a guida Meloni si illude di contrastare la violenza contro le donne di fatto per via penale (al di là delle generiche affermazioni su ore facoltative di educazione sentimentale, in collaborazione con consulenti ministeriali come Alessandro Amadori, autore de La guerra dei sessi che parla di “cattiveria” delle donne).
E ne approfitta per militarizzare i territori come con il decreto Caivano, per accelerare sul piano dell’autoritarismo, cifra evidentissima delle controriforme, a cominciare da quella per il premierato.
Al ferale attacco alla Costituzione antifascista a cui sta lavorando il governo Meloni dedichiamo la storia di copertina di Left di dicembre.
Abbiamo chiesto ad eminenti giuristi e costituzionalisti di spiegare con linguaggio semplice e divulgativo, quali siano i pericoli di una riforma che viene annunciata come soft, ma che non lo è affatto. Una riforma, quella del premierato, che, nel combinato disposto con il varo dell’autonomia differenziata (a cui dedichiamo il libro del mese), qualora andasse in porto, spaccherà in due il Paese e farà carta straccia dei valori costituzionali di eguaglianza e libertà.

In foto un murales dedicato a Giulia Cecchettin