Quattrocento anni fa, nell’ ottobre 1623, veniva pubblicato a Roma per i tipi dell’editore Mascardi, Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano (è da poco in libreria per Hoepli una nuova edizione commentata a cura di Michele Camerota e Franco Giudice).
Galileo Galilei scrisse questo libro per continuare l’aspra polemica che lo opponeva al gesuita Grassi, celato dietro lo pseudonimo Sarsi, intorno al fenomeno delle comete. Sulla questione specifica lo scienziato pisano si sbagliava, ed era più vicino allaverità il suo avversario. Galileo infatti pensava che le comete fossero un fenomeno assimilabile all’arcobaleno, un’illusione ottica dovuta a vapori fluttuanti e che non fossero corpi orbitanti, come giustamente sosteneva il Grassi. Ma il libro è considerato un capolavoro e una pietra miliare nella storia della scienza, per gli aspetti metodologici che esso contiene, per il modo in cui, con una prosa di alto livello letterario, Galileo smonta la concezione aristotelica, allora dominante, e propone il suo modo di concepire la scienza.
La pagina proposta (v.alla fine dell’articolo) è una delle più celebri del Saggiatore, vi troviamo testimonianza dell’adesione di Galileo all’atomismo, per influenza diretta di Democrito, e la conseguente formulazione della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie degli oggetti di cui facciamo esperienza. Questa teoria, ripresa da Cartesio, da Locke e da altri, ha avuto un ruolo fondamentale nella “rottura epistemologica” con cui si realizzò la rivoluzione scientifica del ‘600. Per capire di che si tratta è sufficiente che pensiamo a come oggi sia conoscenza elementare quella che riguarda le frequenze delle onde luminose o sonore: quel rosso che ci appare è diverso da un giallo perchè ogni colore non è altro che l’effetto, sul nostro apparato percettivo, di onde a diversa frequenza; ciò che in realtà è un dato meramente quantitativo – digitalizzabile – ci appare come una differenza qualitativa; rimosso il soggetto che percepisce – dice Galileo – quel rosso, quel dolce, quel ruvido o quel liscio (le cosiddette qualità secondarie) – scompaiono, perché non sono proprietà della cosa ma solo i nomi che diamo alla nostra percezione; nella cosa ci sono soltanto proprietà quantitative: posizione, velocità, forma geometrica, e solo di queste realtà oggettive è possibile fare scienza, altrimenti la “lettura del libro dell’universo” (dice in una pagina altrettanto celebre) è preclusa alla comprensione umana e rimane solo “un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.
Che Galileo traesse questa concezione da Democrito è evidente confrontando quanto egli dice con la proposizione del filosofo greco vissuto tra il V e il IV secolo a.C.: “opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto”. Questo è il modo in cui viene spesso presentato il celebre frammento, ovvero la citazione del pensiero di Democrito (contenuta in forma diretta in un testo di Sesto Empirico del II secolo, giunto a noi per il tramite dei codici medievali) secondo cui l’esistenza delle qualità sensibili è una credenza ingannevole (opinione) dovuta alla sensazione, la verità sta nell’idea dell’atomo e del vuoto. La traduzione più fedele è: “per convenzione il dolce, per convenzione l’amaro, ecc.”. Infatti il termine greco è νόμωι (nomoi), dativo di nomos: legge, convenzione, costume, ecc.
Galileo traeva la sua conoscenza del frammento di Democrito da un altro testo assai diffuso tra il ‘500 e il ‘600, pubblicato in traduzione latina dall’editore Giunta a Venezia, Gli elementi secondo Ippocrate del medico greco Galeno, vissuto anch’egli nel secondo secolo; la citazione democritea vi appare in una delle prime pagine: “lege enim, i.[ipse] νόμωι, color, lege amarum, lege dulce: vere autem, i.[ipse] ἐτεῆι, est atomus et vacuum”. Il traduttore inserì i termini greci corrispondenti a quelli latini con cui rendeva la contrapposizione tra ciò che è mera convenzione e ciò che è verità. Credo sia plausibile che Galileo fosse indotto dall’omofonia tra il greco νόμωι (che leggeva nel testo) e l’italiano nomi, a scegliere questa parola per esprimere il concetto che ricavava da Democrito, così facendo evocava contemporaneamente un’altra fonte del suo antiaristotelismo, ovvero la concezione nominalista di Guglielmo da Occam, il francescano ribelle alla Chiesa le cui opere erano nell’ Indice dei libri proibiti.
Veniva abbandonata, come un “ostacolo epistemologico” la concezione aristotelica delle sostanze, delle essenze, degli accidenti; l’esperienza non ci mette di fronte a queste realtà esterne, di cui il nostro intelletto, se la conoscenza è vera, ci darebbe una interna riproduzione; essa piuttosto è la reazione del nostro organismo agli stimoli che provengono dall’esterno (urto di atomi che penetrano nel nostro corpo, secondo la scuola atomista) i quali si traducono in immagini che raggruppiamo per analogia, che classifichiamo costruendo i concetti con cui ci riferiamo alla realtà, ma i concetti sono nostri, sono attività del soggetto conoscente e non proprietà delle cose conosciute che sono tutte aggregazioni di atomi privi di qualità se non geometriche (secondo gli atomisti) e sono tutte realtà singolari (secondo Occam). Il concetto che abbiamo della cosa è una approssimazione sempre passibile di riforma e di progresso (vedi nel Saggiatore la bellissima favola del cercatore di suoni), il cammino della conoscenza è infinito (come aveva insegnato Giordano Bruno), la conoscenza aristotelica delle “essenze” si rivela un sapere vuoto e tautologico, diventerà, con Molière, bersaglio comico: monsieur Jourdain, “borghese gentiluomo”, tutto felice di aver scoperto che l’oppio fa dormire perché contiene la “virtù dormitiva”. Si apre la strada a una visione funzionalista dei concetti scientifici, ognuno dei quali ha senso solo in una relazione con altri, come nei princìpi di Newton: la forza è il prodotto della massa per l’accelerazione.
Ma Galileo oltre a essere uno scienziato rigoroso, un infaticabile indagatore, era anche uno spirito allegro, e aveva risorse espressive brillanti per catturare l’attenzione dei suoi lettori, gli viene in mente il solletico per fare un esempio di reazione sensibile a un evento in cui la qualità percepita è, con tutta evidenza, nel corpo che sente e non nell’oggetto che lo urta, che può essere tanto una mano animata quanto una piuma inanimata. Il solletico non è una “cosa” che passi da un oggetto esterno al nostro corpo, ma solo il nome che diamo alla nostra reazione a un movimento puramente meccanico.
In quel periodo Galileo era relativamente prudente. Dopo la condanna di Copernico, messo all’Indice nel 1616, e l’ammonizione impartitagli dal cardinale Bellarmino (quello del processo a Bruno concluso col rogo del 1600, quello fatto santo nel 1930) di non sostenere l’eliocentrismo e la teoria dei movimenti della Terra, si era adeguato, senza però rinunciare alle polemiche e alla divulgazione delle sue idee. Che in questo caso però erano forse molto pericolose, più di quanto lui stesso pensasse. Lo storico Pietro Redondi in un suggestivo saggio per Laterza del 1983, Galileo eretico, ha sostenuto che proprio in questa pagina, più che nella sua convinzione copernicana, c’è l’origine dei guai di Galileo. Abolire la concezione aristotelica delle qualità sensibili come proprietà intrinseche alle cose, ovvero (detto in forma aristotelica) come accidenti propri delle sostanze, era mettersi contro niente di meno che il dogma dell’eucaristia, il più importante della religione cattolica, riaffermato dal Concilio di Trento nel 1551, per “strappare dalle radici la zizzania degli abominevoli errori e degli scismi”, sulla base della teologia di Tommaso d’Aquino la quale, a sua volta, si fondava sui concetti di Aristotele. Secondo il canone tridentino ciò che avviene ogni volta durante il rito è il miracolo della transustanziazione: la sostanza del pane e quella del vino si trasformano totalmente nel corpo e nel sangue del Cristo, ma le “specie” (altro termine per dire gli “accidenti”, o le “qualità sensibili”) rimangono inalterate: il sapore, il colore, la consistenza, rimangono quelli del pane e del vino, ma ciò che vi è “sotto” (la substantia) è totalmente altro, presenza divina inesplicabile se non per fede. È chiaro che questa esposizione, in cui l’elemento fideistico è comunque legato alla razionalità aristotelica, non regge se viene abolita concettualmente la distinzione tra qualità e sostanza, come appunto con la filosofia atomista e con il nominalismo occamiano. Secondo Redondi la concezione atomistica galileiana lo esponeva all’accusa di eresia, di vicinanza alle idee dei protestanti i quali, in forme più o meno radicali, contestavano tutti la dottrina cattolica dell’eucaristia, a vantaggio di una concezione simbolica del rito. Addirittura, secondo Redondi, fu questa la causa vera della persecuzione del filosofo, nei confronti del quale, per intercessione del papa Urbano VIII, che già da cardinale era stato un estimatore e protettore di Galileo, l’accusa più grave venne accantonata, coperta da quella, ben più lieve, di aver disobbedito all’intimazione di Bellarmino riguardo ai massimi sistemi.
La controversa tesi di Redondi forse pecca di radicalismo, ma certamente la sua è stata una ricerca di grande valore e ha messo ancor più in luce l’importanza dell’atomismo nella formazione di Galileo e nella rivoluzione scientifica del ‘600; non va dimenticato l’impatto che nella cultura rinascimentale ebbe la scoperta del poema di Lucrezio, il De rerum natura, da parte di Poggio Bracciolini agli inzi del ‘400, per il cui tramite risorse, dall’occultamento medievale, la filosofia di Epicuro, l’altro padre dell’atomismo antico. E in ogni caso, che quella sul solletico fosse una pagina “pericolosa” possiamo pensarlo con considerazioni alquanto più libere, fuori dal rigore filologico di una ricerca come quella di Redondi. Galileo ci sta parlando di una reazione psichica, umana, a uno stimolo materiale che agisce sul corpo; Cartesio, riprendendo, nel primo capitolo del Mondo o Trattato della luce, lo stesso esempio di Galileo, parla dell’ “idea del solletico”: “Un fanciullo che s’addormenta e sulle cui labbra si passi dolcemente una piuma avvertirà il solletico: pensate che l’idea del solletico che concepisce sia simile a qualche cosa che è in questa piuma?”. Sensazione, idea, a cui possiamo aggiungere, emozione: la realtà psichica pensata come emergenza per uno stimolo proveniente dalla realtà naturale esterna… Certo Galileo non si avventurò in questa direzione. Anzi, stabilì che di queste sensazioni soggettive, di questi “puri nomi” non si possa fare scienza, tranne che per il lato oggettivo, ovvero la realtà misurabile dei corpi materiali e del loro movimento: di ciò che non è quantificabile non è data possibilità di conoscenza. Come avrebbe detto Husserl – quando negli anni trenta del ‘900, in piena catastrofe della civiltà occidentale, inseguiva la possibilità di colmare la frattura tra la ragione tecnico-scientifica e il mondo-della-vita, quello in cui viviamo immersi con le nostre senzazioni, le nostre emozioni, i nostri nomi – Galileo fu “un genio che scopre e insieme occulta”.
L’autore: Vincenzo Bonaccorsi già docente di filosofia e storia nei licei
La pagina “pericolosa” sul solletico, dal Saggiatore (1623), paragrafo 48
Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V. S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione “Il moto è causa di calore”, mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci.
Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse.
Io credo che con qualche essempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azzione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Un poco di carta o una penna, leggiermente fregata sopra qualsivoglia parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione, ch’è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso, e sotto le narici, eccita una titillazione quasi intollerabile, ed in altra parte a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è più altro che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre.