È necessario fornire ai giovani strumenti per informarsi su temi come la contraccezione, la trasmissione di malattie veneree ecc. Ma per poter rispondere alle tante domande è necessaria una formazione personale e professionale di educatori e docenti, con idee chiare sull’essere umano e sulla sessualità
La proposta di legge del ministro dell’Istruzione sull’introduzione nelle scuole secondarie di secondo grado del progetto «Educare alle relazioni» per «affrontare il tema della violenza fisica e psicologica sulle donne» scatena, osservato da un Paese del Nord (la Germania) tante considerazioni legate a ognuna di queste parole, importanti, tra virgolette.
Il primo pensiero però va al taglio consistente dei fondi per i centri antiviolenza e alla chiusura effettiva eppur silente in questi giorni (come ha denunciato da Marta Bonafoni «senza bando e senza neppure una comunicazione ufficiale») dei centri antiviolenza nelle università.
Ma come? penso, ma il governo non ha appena dichiarato di voler combattere la violenza contro le donne?. Ribellarsi in questo caso è giusto e necessario, penso d’acchito. Intanto la reazione basita e senza parole trova non consolazione ma una possibile spiegazione nella letteratura: Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire al giovane Tancredi ne Il Gattopardo «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Tornando alle parole importanti partiamo da educazione. Molti autori in questo numero ne descrivono la radice latina del nome. Silva Stella e Serena Vinci, oltre a regalarci una ricostruzione storica della violenza sulle donne a partire dal neolitico (quindi non originaria nella nostra specie), ci spiegano perché i bambini devono essere compresi e amati oltre che accuditi dai genitori, ma non abbiano bisogno di essere educati agli affetti, in quanto gli affetti sono presenti fin dalla nascita in ogni bambino, proprio come la capacità di immaginare per cui ogni essere umano è alla nascita, universalmente, naturalmente propenso alla socialità. «È il libero avvento di ogni nascita necessaria», direbbe Pirandello. Educatori e insegnanti dovrebbero quindi «al più agevolare con qualche mezzo la nascita». Personalmente, la parola educazione mi provoca una reazione di fastidio e leggera allergia, perché non riesco a non considerare, al di là del prefisso latino e- che vuol dire fuori, all’esterno, il nucleo semantico derivante da ducere cioè condurre, guidare. Come se in qualche modo ci sia sempre l’idea di un percorso predefinito dall’adulto verso cui dirigere il bambino. Per fortuna una insegnante sul campo come Alessia Barbagli ne fa subito all’inizio del suo articolo una descrizione talmente bella e vitale da spazzare via ogni mia remora. Penso che abbia ragione, una dialettica costruttiva deve essere coraggiosa e in grado di accettare l’ovvio: la parola educazione è accettata in tutti i sistemi scolastici del mondo e con la fantasia di sparizione che ne ridefinisce i margini e ne riscrive i contenuti è possibile una convivenza dialettica.
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