Il bambino non è una tavoletta di cera. Per il suo sviluppo psichico ed emotivo non serve inculcare nozioni ma occorre una valida relazione genitore-figlio, molto si gioca nel primo anno di vita
Dal Novecento, in vari ambiti è stata fatta molta ricerca sull’infanzia, dalla medicina alla pedagogia, alla psicologia, ma tutt’oggi il pensiero comune è che i bambini e i ragazzi vadano educati. Cercare il senso della genitorialità nella storia è un viaggio lungo, in cui ci si scontra con una cultura che per secoli ha reso donne e bambini invisibili. Alcune ricerche hanno ipotizzato che la disparità tra i sessi sia nata più o meno nel Neolitico, quando l’uomo ha cominciato a comprendere il proprio ruolo nella procreazione. Egli avrebbe cominciato a pensare alla donna come ad una sua proprietà e creatrice dei suoi figli, che doveva educare al fine di non far emergere la naturale bestialità insita nell’essere umano fin dalla nascita. Nel Logos occidentale risiede il fulcro di quel pensiero secondo cui, tutto ciò che è irrazionale, è malato e perverso. Storicamente, il bambino poteva essere considerato persona solo quando cominciava a parlare, ovvero quando acquisiva la ragione. Ciò che contava era un buon comportamento ed il pensiero logico-razionale, infatti solo la ragione e la religione, grazie all’educazione morale, potevano agire un controllo sull’innata cattiveria dell’essere umano.
In questo periodo leggiamo del grande dibattito sulla necessità di entrare nelle scuole per “educare all’affettività”, allora è importante fare chiarezza.
Analizzando la parola educazione, dal latino educere che significa trarre fuori, emerge subito un controsenso in quanto, nonostante il significato etimologico, la nostra società è intrisa dell’idea che educare invece voglia dire “mettere dentro”: buoni insegnamenti, comportamenti, buone maniere, non per ultima l’affettività.
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