Siamo in una nuova fase del capitalismo, quello "cognitivo". Ma rimane il solito problema: tutelare i diritti delle persone dallo sfruttamento. Ai tempi dei "padroni" digitali, è indispensabile rivitalizzare le lotte sociali con una nuova ricerca sulle esigenze individuali e della collettività

L’AI Act è passato al Parlamento Europeo con 523 voti favorevoli. L’Ue è la prima al mondo a dotarsi di regole sull’Intelligenza artificiale. È un importante passo avanti. Ma non sufficiente in un mondo globalizzato. Come fare perché l’intelligenza artificiale sia davvero al servizio della società e non del profitto? Ecco alcune riflessioni di Andrea Ventura, curatore del libro Pensiero umano e intelligenza artificiale (L’Asino d’oro edizioni)

Per come si è evoluto in Occidente negli ultimi decenni, il sistema economico va assumendo aspetti che rievocano le prime fasi dell’industrializzazione, quando la crescita dell’industria e dei profitti si associava all’aumento della disoccupazione e della povertà. Fu la miseria della classe operaia inglese dell’inizio dell’Ottocento a spingere i fondatori del marxismo a studiare il sistema produttivo che si stava affermando. I macchinari che sfruttano il lavoro, osserva Marx, sono essi stessi prodotti dal lavoro, dunque sono “lavoro morto” che sfrutta il “lavoro vivo”. Il profitto non ha dunque una giustificazione propria, ma deriva dal lavoro non pagato. Questa denuncia ha segnato due secoli di lotte sociali. Socialisti, socialdemocratici e comunisti, pur negli scontri anche assai aspri che li hanno divisi, hanno dato vita ad un movimento che ha condotto i popoli di tutto il mondo a lottare per i propri diritti. Fu quel movimento che ha portato al miglioramento della condizione umana, non lo sviluppo dell’industria e dei mercati che di per sé, se orientati esclusivamente al profitto, arricchiscono solo quelle ristrettissime élite che controllano l’industria e la finanza. Non sono cioè le tecniche la fonte del progresso, ma l’uso che se ne fa.

Quest’ultima considerazione assume oggi un rilievo particolare. Non vi è campo né attività umana che non sia coinvolto dalla digitalizzazione dei processi. Il valore delle imprese che guidano questa nuova fase del capitalismo è ormai in grandissima parte legato a componenti immateriali quali avviamento, brevetti, licenze, programmi, banche dati. Indubbiamente anche in passato la scienza e la tecnologia erano decisive per il valore dell’impresa, eppure oggi siamo in presenza di un fatto nuovo: il capitale non è costituto soltanto dal “lavoro morto”, come notava Marx, ma, appunto, da elementi che derivanti dal pensiero umano e che producono informazioni. Fin da quando hanno inventato la ruota e utilizzato gli animali per i lavori più gravosi, gli uomini si sono ingegnati per alleviare lo sforzo fisico. Oggi si cerca di sostituire gli esseri umani in ciò che è la loro massima espressione, ossia nel pensiero. Fino a che punto il capitale può essere “pensiero morto”, rendendo superflue quelle funzioni mentali che contraddistinguono gli esseri umani?

Fin dalla costruzione delle prime “macchine pensanti” ci si è chiesti se il risultato di quei processi avesse a che fare col pensiero. Oggi si ottengono risultati così sofisticati che ci si domanda se dalle macchine possa emergere un pensiero e una coscienza simili a quelle umane. Gli studi sull’intelligenza artificiale hanno peraltro alcuni punti di contatto con le neuroscienze, tra cui l’idea che le forme più evolute di pensiero siano prodotte dal superamento di una soglia critica di connessioni neuronali (detta singolarità), cosicché anche le macchine prima o poi arriveranno al pensiero e alla coscienza di sé. Non manca chi prefigura una società post umana dove, a causa di un insieme di fattori quali l’avanzamento tecnologico, la complessità dei problemi da gestire e i limiti della nostra natura biologica, gli esseri umani saranno costretti a delegare sempre più funzioni a macchine pensanti più potenti di noi. Il dominio delle macchine, o il posizionamento nel cervello di componenti elettroniche finalizzate ad aumentare le nostre capacità cognitive, sarebbe l’esito naturale dell’evoluzione della specie.

Per affrontare la questione va ricordato anzitutto, ancora una volta, che l’intervento umano è decisivo nella fase di produzione dei dati, nell’elaborazione dei programmi, nell’addestramento delle macchine, nella correzione degli errori e anche nell’uso che tutti noi facciamo di questi dispositivi, uso che segnala incongruenze, aumenta la quantità di dati e consente ai tecnici di affinarne il funzionamento. Le risorse finanziarie necessarie per queste attività sono ingenti, cosicché il campo è dominato da pochissimi colossi informatici.

È inoltre essenziale un sistema legale che da un lato, grazie al possesso delle infrastrutture, consenta a società private di intercettare le tracce delle attività in rete, dall’altro garantisca il rispetto dei diritti di proprietà sulle tecniche (particolarmente accesa è la competizione tra Stati Uniti e Cina sui chip a maggiore capacità di calcolo) e sui programmi: senza quel passaggio decisivo per il quale il pensiero umano, contro la propria natura, è reso una merce, non vi sarebbe alcun “capitalismo cognitivo”, come talvolta questa fase dello sviluppo capitalistico viene denominata. Oltre alle rendite generate dal possesso di piattaforme ormai essenziali per ogni attività (vedi A. Ventura, L’Unione dei diritti e i padroni digitali, Left, febbraio 2024) il lavoro, la ricerca scientifica e la determinazione di quali diritti meritino una protezione e quali no, costituiscono le componenti essenziali dei profitti di queste grandi società.

Non è chiaro quanto la scommessa secondo la quale silicio e corrente elettrica possano produrre il pensiero sia un elemento di propaganda, e quanto sia invece frutto di confusione intellettuale. Ogni investimento capitalistico è una scommessa sui profitti futuri, ma questa scommessa sembra un po’ azzardata: se essa trova credibilità, l’errore non consiste nelle potenzialità di queste tecniche, indubbiamente enormi, ma sugli esseri umani. Un punto è indubitabile: questi algoritmi devono essere istruiti con estrema precisione, fornendo loro delle regole, o milioni di esempi per l’addestramento, e nessuno ha idea di come l’assistenza umana possa essere rimossa. I programmi di riconoscimento delle figure “imparano” dopo una serie lunghissima di tentativi ed errori. Quelli che generano il linguaggio umano non sono basati sulla comprensione dei testi, ma sul calcolo delle probabilità che a una parola ne segua un’altra, e a una frase ne segua un’altra con un contenuto analogo. Pertanto i testi così prodotti riproducono, senza alcuna comprensione, quanto in media è stato detto sull’argomento, svolgendo un lavoro che in molti contesti è estremamente utile e che può ben essere confuso con quello prodotto da un essere umano, ma che non ha alcun carattere innovativo.

Infine, se non si conosce l’argomento, è facile incorrere in gravi errori: qualche settimana fa ho chiesto a Chat GPT di raccontarmi “la storia dei tre cappuccetti rossi e il lupo” e mi ha risposto che “è una storia popolare di tre cappuccetti rossi, spesso fratelli, che vanno a trovare la nonna malata nel bosco e incontrano il lupo…”. Sebbene errori di questa natura possono essere facilmente corretti grazie all’interazione con gli utenti, si deve essere consapevoli dei limiti di questi processi e delle gravi conseguenze che possono derivare dal loro uso in campi che investono la vita delle persone.

Il punto è che le macchine hanno potenzialità immense per tutti quei problemi che richiedono grandi capacità di calcolo, ma non sono appropriate per riprodurre i processi mentali e per dar conto di come il pensiero comprende la realtà circostante. Il pensiero, infatti, si caratterizza per dimensioni non razionali legate alla sensibilità, alla fantasia e alle immagini, e si sviluppa sulla base di affetti ed emozioni legate al vissuto del soggetto. Esso compare alla nascita come “capacità di immaginare” per la reazione della retina, che è materia cerebrale, allo stimolo luminoso. Il neonato è del tutto alieno alla ragione e al calcolo. I suoi sensi fisici sono imperfetti ed egli vede inizialmente solo luci e ombre, ma queste immagini indefinite hanno un senso profondo legato al rapporto con chi lo accudisce. Solo secondariamente, con la maturazione dei cinque sensi, si sviluppa un rapporto più preciso con la realtà materiale circostante: eppure gli affetti e le immagini dei primi mesi di vita non possono essere annullati, pena la perdita del pensiero stesso. L’importanza delle dimensioni psichiche non razionali dei bambini è riconosciuta da alcuni grandi personaggi dell’arte e della scienza, come ad esempio Picasso e Einstein. Il primo ha affermato di aver impiegato tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino, mentre per Einstein la spinta alla ricerca della verità e della bellezza hanno origine nella curiosità e nell’attività di gioco dei bambini.

L’attività umana è caratterizzata da una spinta vitale verso la conoscenza e il cambiamento, non dall’apprendimento meccanico e dalla riproposizione dell’esistente. Dunque non siamo macchine calcolanti, né le macchine possono riprodurre il pensiero, né abbiamo bisogno di chips nel cervello per pensare meglio. L’opposizione a queste idee – indispensabile per un uso delle macchine in funzione del progresso, e non a fini di controllo e sfruttamento – necessita la rivendicazione di una identità umana completa, che ponga in primo piano gli affetti, la creatività e le immagini, e solo in seguito sviluppi la razionalità e il rapporto con l’utile e le cose: in breve, nonostante la cultura dominante affermi il contrario, non è il rapporto con la tecnica che contraddistingue l’umano, ma il valore del rapporto sociale, al quale la tecnica va sempre subordinata.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Lo sviluppo economico è stato sostenuto dalla diffusione dell’attitudine alla precisione industriale e dalla crescita dei livelli di scolarizzazione. Un alto livello di istruzione è ovviamente essenziale sia per la progettazione delle macchine, sia per la possibilità che cittadini e utenti facciano uso di quei sofisticati dispositivi che fanno ormai parte della nostra vita quotidiana. Inoltre, come ho già argomentato (Una nuova antropologia per la sinistra, Left, aprile 2023), in tutti i Paesi di vecchia industrializzazione si è avuto un profondo mutamento nel rapporto tra orientamenti politici e livelli di istruzione. In passato le forze conservatrici erano maggioritarie tra l’elettorato più istruito, e quelle che si ispiravano al socialismo raccoglievano le preferenze di quello meno istruito; dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la situazione si è ribaltata: l’elettorato più istruito vota prevalentemente a sinistra, quello meno istruito a destra. Nell’insieme, sia per la crescita dei livelli di istruzione, sia per il tipo di sviluppo che caratterizza i settori più avanzati del capitalismo, oggi la dialettica sociale investe aspetti legati alla cultura, all’istruzione, all’informazione, alla scienza.

La sfida odierna è saldare l’eliminazione della sofferenza legata a miseria, malattie e guerre (cioè la soddisfazione dei bisogni di base, purtroppo ancora a repentaglio), con la piena realizzazione dell’identità della nostra specie nei suoi aspetti legati alla realtà mentale e alla socialità. È dunque vitale la ricerca sul pensiero. Affrontare queste questioni è indispensabile per fornire linfa nuova a quelle rivendicazioni che hanno caratterizzato le lotte sociali dei due secoli trascorsi.