Se ne è andata una grandissima scrittrice, Maryse Condé, straordinaria voce della letteratura francofona, originaria della Guadalupa e poi cittadina del mondo, vivendo a lungo in Francia e negli Usa dove ha insegnato. Ha scritto una trentina i libri sull’Africa, sulla schiavitù, sulle molteplici identità nere. Con coraggio ha decolonizzato lingua e la cultura in senso ampio. La ricordiamo con questa intervista uscita su Left il 18 agosto del 2019
Una visione epica dell’esistenza e della letteratura. Una lingua ricca di aromi, carnale, nitida. Con grande spessore letterario e umano, Maryse Condé, premio Nobel alternativo 2018, ha raccontato la sua terra madre, l’isola caraibica di Guadalupe e le ferite del colonialismo. Grande viaggiatrice, dalla Francia, scelse di andare a vivere e a insegnare in Africa, rifiutando ogni mitologia delle radici, per conoscere quella immensa e variegata realtà con i propri occhi. A 82 anni ora lo racconta nell’autobiografia La vita senza fard (La Tartaruga), coraggiosa testimonianza di scrittrice e donna che si presenta senza infingimenti.
Maryse Condé, la verità chiede coraggio, identità, assunzione di responsabilità, cosa significa per lei la parola «verità» e quanto le è costato cercarla sempre?
C’è un’immagine che caratterizza ognuno di noi, che uno lo voglia o meno. Un’immagine fatta da propositi a volte concepiti senza troppe riflessioni, da reazioni momentanee, immediate. Questa immagine a volte ne nasconde una più profonda, più adeguata alla propria personalità più intima. Quello che io chiamo verità è la ricerca costante dell’espressione di sé più autentica, al di là delle idealizzazioni e dei malintesi. Non è un’impresa facile, è un lavoro di demistificazione, è il rifiuto di ciò che è comodo e facile ricordare. Questa ricerca è dolorosa e costa a coloro che vi si dedicano seriamente.
Nel dittico Le muraglie di terra e La terra in briciole lei riporta alla luce la storia di Segou e della sua islamizzazione, dall’arrivo del primo bianco sul Niger fino alla conquista coloniale francese. La verità storica ha una grande importanza collettiva, ma troppo spesso viene negata?
Non ho inventato nulla. Tutto il mondo sa che Mungo Park era stato inviato dalla Società di geografia inglese per scoprire in quale senso scorresse il fiume Niger, chiamato “Joliba” dagli africani. Sono partita da questo aneddoto per raccontare la vita dei primi abitanti dell’impero Bambara. Ho voluto mostrare lo iato profondo tra il racconto costruito dagli europei e quello autoctono degli africani su se stessi.
Le responsabilità coloniali dell’Occidente vengono ancora occultate da quegli stessi Paesi occidentali che oggi chiudono le porte ai migranti…
Rispetto al tema migranti non mi sono occupata nello specifico di come vengono accolti in Europa. Beninteso, è giusto che vengano soccorsi e ospitati da persone sensibili e attente. La mia analisi, i miei interessi sulla questione sono di altro ordine, però. Io vorrei scandagliare a fondo le origini delle migrazioni. Perché ci sono tanti conflitti nei Paesi in via di sviluppo? Chi ne è la causa? È una questione di sfruttamento (schiavitù) a spingere le persone a auto esiliarsi, ad affrontare la morte su imbarcazioni di fortuna? Cerco di capire dove siano le responsabilità e di immaginare i rimedi possibili a questa situazione così drammatica e dolorosa.
Nel libro Io, Tituba, strega nera di Salem (Giunti) racconta una terribile strage di accusati di stregoneria, avvenuta nel XVII secolo. Il mandante era anche l’ideologia puritana. Perché nella storia le grandi religioni monoteiste si sono sempre accanite contro le donne?
Non lo so, quello che posso dire è che Tituba è un libro in cui esploravo l’imposizione della perdita dell’identità della donna nera. Lo spiega bene la prefazione che Angela Davis ha scritto per nell’edizione americana del libro.
Con il suo lavoro lei ha contribuito a dare voce alle donne e agli uomini dei Caraibi. Il premio Nobel alternativo per la letteratura che le è stato assegnato nel 2018 è un riconoscimento particolarmente importante perché nasce dal rifiuto della violenza sulle donne.
Sono stata molto felice di ricevere il premio Nobel per i motivi che ho spiegato nel mio lungo discorso di Stoccolma. Nella società in cui sono cresciuta non c’era posto per la voce di una donna, per giunta nera.
Anche il Nobel Derek Walcott è stato voce poetica e civile dei Caraibi, che significato ha avuto per lei il suo lavoro?
Proprio in quel discorso ho ricordato come sia stata felice di far conoscere un altro aspetto insondato della realtà delle Antille, di lavorare sulle tracce di Aime Cesaire, Frantz Fanon e Derek Walcott. Una grande parte del mondo è stata ridotta al silenzio ed è stato difficile proprio per i miti e le menzogne che si sono accumulati durante gli anni della colonizzazione. Questo compito è lungi dall’essere colmato, restano ancora molti sforzi da compiere come dice la canzone «Un giorno la Terra sarà rotonda».
Per oltre vent’anni lei ha insegnato a Berkeley, Harvard e alla Columbia University e conosce profondamente la realtà americana. Gli Stati Uniti sono diventati un simbolo di libertà nel mondo, ma sono anche una nazione nata sul genocidio. Perché ancora oggi non se ne parla abbastanza?
Parecchie nazioni hanno conosciuto lo stesso destino. Certamente i genocidi degli Indiani sono un fatto per cui ci sentiamo in colpa, come è giusto che sia. La memoria è importante, ma credo anche che la storia moderna necessiti una epoché delle realtà del passato per arrivare all’armonia dello scambio e della vita in comune che oggi è indispensabile.
Qui i libri di Marise Condé nel catalogo Giunti