Dalla fama di “fabbrica del mondo” al ruolo di gigante high-tech, la Cina ha attraversato un cambiamento epocale, trasformandosi nella seconda potenza mondiale. Oggi attraverso il nuovo libro Tecnocina: Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi (Add editore) di Simone Pieranni, uno dei più attenti studiosi italiani della Cina, ci possiamo immergere nella storia della Repubblica Popolare, squarciando quel sistema di pensiero chiamato “orientalismo” che spesso porta a perpetuare stereotipi e distorsioni di un Paese e di una cultura che oramai è divenuta fondamentale, per chi vuol comprendere “i fatti del mondo”.
Questo viaggio nella storia contemporanea cinese avviene attraverso vicende prima ignorate, con protagoniste storie di donne e uomini finora trascurati. Il racconto del giornalista (fondatore di China files e ora in forze a Chora media) dipinge un quadro di epiche scoperte e tumultuosi stravolgimenti politici, riflettendo su idee brillanti e colossali fallimenti. In occasione della seconda ristampa di Tecnocina e di due presentazioni a Roma e a Ivrea, l’abbiamo intervistato.
Simone Pieranni, il suo libro è basato sulla storia di alcuni scienziati. Perché ha scelto questo specifico modo di raccontare la tecnologia cinese?
Attraverso le storie delle persone, si riesce a ricreare il contesto nel quale avvengono tutte una serie di scoperte e innovazioni. Quindi, secondo me, è un modo più semplice e anche più empatico per entrare all’interno di storie che altrimenti rischiano di essere molto tecniche e di far perdere di vista quello che era il contesto umano, soprattutto nei primi tempi della Repubblica Popolare. Per fare un esempio, gli scienziati che tornano dall’Occidente per contribuire alla creazione della Nuova Cina non hanno una vita semplicissima, la loro storia personale aiuta anche a capire come alcune innovazioni e scoperte abbiano una rilevanza ancora maggiore proprio perché all’interno di un contesto molto complicato.
Nel suo libro, molte donne sono presentate in contesti storici precisi, mentre sembra che nella narrazione contemporanea se ne parli meno. C’è una motivazione storica o culturale dietro questo fenomeno?
Nella storia della Cina, le donne hanno svolto un ruolo molto importante nel campo della scienza e della tecnologia, specialmente nella prima fase. Nonostante gli errori compiuti da Mao Zedong, è evidente che in quel periodo ci sia stata un’emancipazione delle donne. Oltre alla celebre frase di Mao secondo cui «le donne sono l’altra metà del cielo», vi erano vecchi valori confuciani paternalistici e patriarcali contro cui Mao aveva deciso di combattere. Questo cambiamento ha consentito a molte donne di accedere a studi e obiettivi scolastici che precedentemente non avevano, facilitando il loro successo soprattutto nel campo della scienza e della tecnologia. Anche se nel panorama politico cinese ci sono poche donne in ruoli di comando, nell’ambito scientifico esse rimangono comunque molto importanti.
Esiste un punto di svolta significativo nella storia della tecnologia cinese?
Il punto di svolta più significativo è probabilmente quello degli anni Ottanta, quando nasce il programma chiamato 863, che di fatto liberalizza il settore della ricerca scientifica, consentendo agli scienziati di avere il comando della situazione. Mentre in precedenza, soprattutto durante l’epoca maoista, era la politica a guidare il timone della ricerca, dagli anni Ottanta in avanti comincia una fase nella quale il Partito comunista arretra un po’ rispetto agli scienziati, ai quali dà completamente la responsabilità di indicare gli obiettivi e di organizzare anche il modo attraverso il quale ottenerli.
Quali sono secondo lei i punti fondamentali della visione della tecnologia in Cina. Ci sono differenze con quella europea o statunitense?
Ovviamente, il Partito comunista cinese ha sempre avuto un forte supporto propagandistico e mediatico, utilizzando la ricerca, l’innovazione e il progresso tecnologico come simboli del progresso generale della Cina. Inizialmente, questi sono stati presentati come strumenti per alleviare le sofferenze della popolazione cinese, poi per migliorare le condizioni economiche e infine per rendere la Cina più forte anche a livello internazionale. Soprattutto nell’ultimo periodo, secondo me, c’è una differenza molto evidente. Ad esempio, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, permane questo atteggiamento ottimista da parte dei cinesi, che hanno visto questo progresso avvenuto soprattutto negli ultimi 30 anni come un miglioramento fondamentale nella loro vita. Di conseguenza, c’è una visione tutto sommato ottimistica, rispetto magari a una visione più cupa che possiamo avere noi.
Può fare una previsione rispetto a quello che viene chiamato conflitto dei superconduttori fra Cina Taiwan e Usa? Nello specifico quanto reggerà lo “scudo di silicio” taiwanese prima che i cinesi raggiungano tecnologicamente (e fisicamente) l’isola?
La previsione non è difficile da formulare, perché è abbastanza universalmente accettato che le restrizioni commerciali imposte alla Cina non porteranno a un blocco indefinito. Inizialmente, queste restrizioni hanno danneggiato la Repubblica Popolare, ma adesso ha capito come riorganizzarsi. Ad esempio, in questo momento si punta molto sull’utilizzo di chip di qualità inferiore che possono essere acquistati in maggior quantità, ma combinandoli riescono comunque ad ottenere capacità considerevoli. Questo è ciò che viene comunemente definito come “ciclo”, e viene visto da tutti come il modo in cui la Cina ha affrontato efficacemente questa sfida. Inoltre, la Cina sta facendo molte sperimentazioni con nuovi materiali conduttivi, il che porta a sviluppi interessanti che potrebbero risolvere questo problema nel lungo termine. Quindi, sebbene temporaneamente la situazione possa risultare fastidiosa per la Cina, è probabile che il problema venga risolto. Questo non è un mio pensiero personale, ma è condiviso da molti osservatori del settore.
Spesso in ambito tecnologico si dice che gli Stati Uniti inventano, l’Europa regolamenta e l’Asia (Cina) migliora. Qual è il contributo complessivo della Cina alla scienza e perché sembra essere sottovalutato, soprattutto nella storia occidentale?
Purtroppo il contributo sottovalutato non è solo quello della Cina. Noi abbiamo una visione molto eurocentrica, ma anche dall’Africa, dall’America Latina e da altre zone del mondo arrivano dei contributi scientifici molto importanti, anche recenti. Siamo noi che non li vediamo, ma il resto del mondo va avanti e le comunità scientifiche lo sanno benissimo.
Della triangolazione mi sembra che l’unica cosa che per ora rimanga sia la regolamentazione dell’Unione europea. È proprio questo che è cambiato. La Cina, a un certo punto, si è piazzata nella posizione degli Stati Uniti, e questo è ciò che ha creato lo sconvolgimento che ha portato allo scontro tecnologico e commerciale. L’esempio principale è TikTok. Nel momento in cui un algoritmo “made in China” diventa l’applicazione più scaricata in Occidente, ecco che questa triangolazione probabilmente possiamo dire che appartiene al passato.
La tecnologia è vista come un mezzo di libertà nell’Occidente, mentre in Cina si pensa che sia sinonimo di sorveglianza e controllo. È una visione giusta o parziale?
È una visione parziale perché la tecnologia è sorveglianza e controllo ovunque. Dipende da chi la usa; la tecnologia non è neutra, e quindi dipende da chi la utilizza, sia in Cina che in Occidente. È chiaro che in Cina, essendoci un partito unico che fa del controllo sociale e della sorveglianza uno dei suoi elementi distintivi, grazie alla tecnologia, diciamo, non può procedere in maniera più spedita e viene facilitata nel fare ciò. Tuttavia, in Cina, la tecnologia è vista molto di più dai cinesi come un mezzo per semplificare e migliorare la vita. Quindi, è una visione un po’ nostra quella di considerare che in Cina sia sinonimo di sorveglianza e controllo, anche perché in Cina, nel momento in cui di recente il settore, ad esempio, di estrazione dei dati e di riconoscimento facciale mancava completamente di un quadro normativo, ci sono state molte proteste da parte degli utenti cinesi e alla fine si è provveduto a perimetrare quell’area. Quindi, in realtà, c’è molta più dialettica in Cina di quanto pensiamo, e la visione che sia solo sorveglianza e controllo è totalmente parziale e molto poco accurata.
Una visione positivistica della scienza ritiene che con l’aumentare del benessere di un popolo, anche grazie alla tecnologia, questo tenda a chiedere più diritti. Questa visione della storia e della società è europocentrica o è replicabile anche per un Paese come la Cina?
Si è sempre pensato che il benessere debba portare per forza alla democrazia, e la Cina è proprio il Paese che smonta questa lettura. È uno Stato autoritario che ha saputo creare molta ricchezza, quindi non ha assolutamente alcun bisogno, almeno fino a prima del Covid, neanche di esprimere chiaramente esigenze di democratizzare il proprio sistema politico. Anzi, la crisi della democrazia occidentale è un tema di cui si discute molto in Cina. Questo non significa che naturalmente molti cittadini cinesi preferirebbero avere un sistema multipartitico con delle venature democratiche, ma almeno fino a prima del Covid, per i cinesi tutto sommato non era un problema avere una limitazione di quelle che per noi sono libertà. Dopo il Covid, questo è un po’ cambiato, perché i lockdown hanno messo di fronte al problema anche chi percepiva l’esistenza del partito, ma tutto sommato non era infastidito più di tanto nella sua vita quotidiana. Adesso si apre tutta una nuova partita, ma che non ha niente a che vedere con un’eventuale diatriba tra sistema autoritario e democrazia. Si parla sempre un po’ di aggiustamenti e di una richiesta generale al Partito comunista di allentare eventualmente alcune delle sue capacità di essere particolarmente autoritario, ma non è il momento propizio per questo perché Xi Jinping non ha assolutamente l’idea o l’intenzione di cambiare il suo approccio, almeno stando a quello che sappiamo.
Dal vivo: il 14 maggio ore 18.30, Simone Pieranni presenta Tecnocina a Roma, al Caffè Letterario Horafelix
2 giugno sarà Ivrea, al festival La Grande Invasione