Non è stata una fatalità, ma un criminale e strutturale sistema di sfruttamento. Dal governo che ha per motto “non disturbare chi produce” non ci si può attendere nessuna giustizia per Satnam e tanti altri come lui, serve una grande mobilitazione popolare per cambiare questa inaccettabile realtà

La scena che lunedì 17 giugno si è presentata ai medici del servizio di emergenza 118 è apocalittica. Di fronte a loro c’è un uomo senza più il braccio destro. Ha perso talmente tanto sangue che i racconti sono concordi nel dire che quasi non ne usciva più.
Però è ancora vivo. E allora viene trasportato d’urgenza in elisoccorso all’ospedale San Camillo di Roma. Rimarrà 36 ore. Poi, però, smette di respirare. Per sempre.

Quell’uomo, che troppa stampa ha definito “un indiano”, aveva un nome e un cognome: Satnam Singh. Prima che indiano era un lavoratore. Un bracciante, per essere precisi. Era arrivato in Italia tre anni fa e da circa due anni lavorava nell’azienda agricola Lovato a Borgo Santa Maria. In provincia di Latina, la città fondata dal Duce a 70km da Roma e inaugurata il 18 dicembre 1932.

Lavorava tanto Satnam. Anche 12 ore al giorno. Per una paga di 4€ l’ora. Naturalmente in nero, senza alcun contratto. Perché per i lavoratori migranti, che rischiano continuamente l’espulsione dall’Italia, a causa delle leggi volute tanto dal centrosinistra quanto dalle destre, è sempre bere o affogare.

Quel lunedì una macchina avvolgi plastica gli ha tranciato il braccio destro e ha causato la frattura delle gambe. Il signor Lovato, il “padrone” – qui così si fanno chiamare gli “imprenditori”, anziché soccorrerlo l’ha caricato su un furgone e l’ha scaricato davanti alla sua casa. Mentre la moglie, Sony, anche lei lavoratrice nella stessa azienda, lo implorava di aiutarli. E invece niente. Anzi: accanto al corpo, il padrone ha lasciato in una cassetta di plastica, di quelle utilizzate per raccogliere la frutta, l’arto reciso di Satnam. Non prima di aver sequestrato i telefoni cellulari dei due, per impedire che potessero denunciare l’accaduto e far capire così le condizioni di irregolarità in cui erano tenuti da quello schiavista.

Ma la storia non finisce qui. Perché arrivano i media. I giornalisti, le telecamere. Il sig. Lovato, il titolare dell’azienda, viene addirittura intervistato dal Tg1, il telegiornale del principale canale RAI. Non versa lacrime. Non sembra distrutto dal dolore, lui. Anzi, afferma con un tono quasi distaccato che in fondo il bracciante se l’è cercata, perché lui gliel’aveva detto di non lavorare a quel macchinario. “Una leggerezza del bracciante, costata cara a tutti” – così afferma. Una “leggerezza”, così definisce l’ennesimo omicidio sul lavoro. Il centesimo dall’inizio del 2024 che ha per vittima un lavoratore straniero.

Sono dichiarazioni che indignano. Al signor Lovato è evidente che manchi il senso del pudore. Com’è possibile questa assoluta mancanza di empatia per un giovane uomo ucciso nella propria azienda? Alla base c’è la de-umanizzazione del lavoratore. Se sei un lavoratore straniero sei un oggetto, sia agli occhi di chi ti ritiene un pericoloso invasore – la retorica dell’ultradestra, che a quelli di chi ti considera una povera vittima bisognosa di aiuto – la retorica del centrosinistra. Mai esisti per quello che sei, un soggetto della tua storia e parte di quella collettiva. Morto Satnam, l’imprenditore troverà un sostituto per quella merce particolare che è il lavoratore. E avanti, perché la produzione non si può fermare.

Ma al sig. Lovato manca anche altro. Manca la paura. Istintivamente “sa” che a quelli come lui, alla sua classe di appartenenza, le cose vanno sempre lisce. Oggi è indagato per “omicidio colposo”, reato per il quale rischia un massimo di 7 anni di reclusione. Per “omissione di soccorso” fino a 1 anno. Nell’ordinamento non esiste il reato di “omicidio sul lavoro”, per il quale si battono da tempo forze come Unione Sindacale di Base (USB) e Potere al Popolo!. Significativo che per il governo Meloni, che ogni giorno inventa un nuovo reato, l’unico reato da non introdurre è uno che potrebbe tutelare lavoratori e lavoratrici.

A qualche ora dalla notizia di questo ennesimo omicidio, Giorgia Meloni ha dichiarato che “sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano”. Peccato che la realtà ci dica altro. Ad esempio, il “VI Rapporto agromafie e caporalato” stima che nel solo settore primario ci siano almeno 230mila lavoratori irregolari, pari a un quarto del totale della forza lavoro del settore. Come se non bastasse, le 55mila donne occupate soffrono non solo lo sfruttamento lavorativo e fiscale, ma anche – spesso – quello sessuale.

Insomma, le condizioni di sfruttamento e insicurezza che soffriva Satnam Singh sono la norma, non l’eccezione. Se ci concentriamo sull’agro pontino, la regione agricola intorno a Latina, le inchieste degli ultimi hanno fatto emergere aspetti raccapriccianti. Molti braccianti dell’enorme comunità sikh che lì si è insediata (le stime variano dai 12mila ai 30mila membri) fanno regolare uso di oppioidi. In particolare di ossicodone, un farmaco oncologico, al centro della serie Netflix “Painkiller”, prescritto e venduto da medici e farmacisti conniventi col sistema criminale messo in piedi dai padroni pontini.

Come ha dichiarato K. Singh, un bracciante indiano: “Noi sfruttati non possiamo dire a padrone ora basta, perché lui manda via. Allora alcuni indiani pagano per piccola sostanza per non sentire dolore a braccia, a gambe e schiena. Padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come possibile lavorare ancora? In campagna per raccolta zucchine indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. No possibile e sostanza aiuta loro per vivere e lavorare meglio” (Doparsi per lavorare come schiavi, InMigrazione, 2014).

Non sono droghe usate per “sballarsi”, ma per reggere a ritmi e intensità di lavoro altrimenti insopportabili. È un capitalismo che si è spinto talmente oltre nel tasso di sfruttamento che impedisce la “normale” riproduzione della forza-lavoro, costretta a doparsi per poter andare avanti.
Se vi state chiedendo in mano a chi sia il traffico di queste “sostanze”, la risposta è nelle parole di un altro bracciante: “Italiano vende a indiano oppure sai che fanno, italiano dà a indiano che vende e poi dà soldi a italiano padrone” (Doparsi per lavorare come schiavi, InMigrazione, 2014).
Un po’ troppo per la retorica di “italiani brava gente” promossa dal Governo Meloni.

E alla faccia, anche, del concetto di “ruralità” che il Comune di Latina, amministrato da Fratelli d’Italia, il partito di Meloni, ha messo al centro della propria candidatura a capitale della cultura del 2026! La “ruralità” reale è questa roba qui, feroce sfruttamento per tanti, profitti per pochi.

È su questo che si gioca una partita politica importante. La strategia comunicativa dell’ultradestra mira infatti a considerare i signori Lovato delle mele marce. Come ha affermato il ministro dell’Agricoltura, nonché cognato di Meloni, Francesco Lollobrigida: “Il decesso di un operaio per colpa di un criminale non deve portare a criminalizzare tutte le imprese agricole. Queste morti non dipendono da imprenditori agricoli. Dipendono da criminali”.

Cominciano a essere un po’ troppi questi “criminali”, tanto che criminale pare il sistema in sé, se è vero che i “Medici con l’Africa CUAMM” nel 2019 denunciavano che nei precedenti sei anni i braccianti morti di lavoro in Italia fossero stati più di 1.500
A loro andrebbero aggiunti i braccianti uccisi dai caporali o in sparatorie, come il sindacalista maliano Soumaila Sacko, assassinato il 2 giugno 2018 con quattro proiettili alla testa da un italianissimo Antonio Postoriero in provincia di Reggio Calabria
E non si tratta solo di lavoratori stranieri. Nel 2015 suscitò indignazione la morte di Paola Clemente, bracciante in Puglia, sottoposta a condizioni di sfruttamento simili a quelle patite dal proletariato agricolo migrante. Ogni notte si svegliava alle 3, saliva su un pullman e percorreva i 150km che la separavano dal campo in cui provvedeva all’acinellatura dell’uva. Paola è stata uccisa dalla fatica. Dai ritmi impossibili. Eppure i tribunali, per ora, non hanno fatto giustizia. L’imprenditore che l’ha sfruttata è stato infatti assolto in primo grado (https://ilmanifesto.it/paola-clemente-morta-di-sfruttamento-in-un-campo-e-senza-giustizia).

La preoccupazione di Meloni & Co. sembra più quella di scagionare la classe imprenditoriale che trasformare le condizioni di lavoro e di vita di centinaia di migliaia di lavoratori agricoli. Solerti quando a protestare sono le associazioni delle imprese agricole, come Coldiretti, o i “trattori”, diventano sordi quando le rivendicazioni arrivano dal lato operaio.

Venerdì 21 giugno i media hanno dato la notizia che probabilmente la moglie di Satnam Singh (di cui quasi mai viene riportato il nome, Alisha, così da disumanizzare anche lei), oggi irregolare, otterrà un permesso di soggiorno per motivi di giustizia.
Così come potrebbe ottenerlo un collega di Satnam che si è detto intenzionato a testimoniare e a raccontare la verità dei fatti. Il tutto, però, a suo rischio: “Ho deciso comunque di assumermi il rischio di essere cacciato dall’Italia con un foglio di via. Lo devo a Satnam e a sua moglie”.

Il problema è che la legge italiana oggi non prevede la convertibilità dei permessi di soggiorno per motivi di giustizia in permessi di soggiorno per lavoro. Se non per casi eccezionali. Significa che alla fine del processo Alisha e il collega di Satnam rischiano l’espulsione dall’Italia.

Se la politica avesse a cuore la vita di questi uomini e di queste donne dovrebbe dunque procedere a una profonda revisione delle norme che regolano l’accesso e la permanenza in Italia.
Dovrebbe, ad esempio, approvare la convertibilità del permesso di soggiorno per motivi di giustizia in permesso per lavoro e consentire l’arrivo in Italia per “ricerca lavoro”.
Oltre che eliminare le leggi sull’immigrazione, a partire dalla Bossi-Fini. La legge del 2002, voluta dalla Lega e da Alleanza Nazionale, il partito post-fascista in cui militava anche Giorgia Meloni, lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Se viene meno il contratto lavorativo viene meno il diritto a rimanere in Italia. Non sfuggirà l’enorme potere di ricatto in capo agli imprenditori.

Dovrebbe spingere per la regolarizzazione delle centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che vivono già nel nostro Paese. Solo che ci vivono da fantasmi. Persone che subiscono uno sfruttamento spesso brutale, che contribuiscono a produrre la ricchezza del nostro Paese e che però lo Stato si ostina a fare finta che non esistano. Serve, cioè, una sanatoria che permetta a centinaia di migliaia di persone di poter finalmente uscire dall’ombra (esistono già alcune norme – art. 22 del Testo Unico sull’Immigrazione – che permetterebbero la regolarizzazione delle vittime di sfruttamento, ma spesso sono colpevolmente ignorate dagli stessi ispettori del lavoro).

Non è una misura che serve solo ai lavoratori e alle lavoratrici straniere. Esistere alla luce del sole significa poter godere di diritti oggi inesigibili, ridurre il grado di ricattabilità, poter dunque strappare migliori condizioni e migliori salari, riducendo la leva della concorrenza al ribasso e della guerra tra poveri che viviamo ogni giorno tra le file della classe lavoratrice.
Più diritti per un segmento della classe lavoratrice significa più forza per l’intera classe.

Non solo. Perché bisogna avere la capacità di risalire lungo la catena dello sfruttamento e arrivare fino alla Grande distribuzione organizzata, che impone prezzi bassissimi e fa finta di non vedere e non sapere che quelle condizioni possono essere ottenute solo perché tutto il loro peso ricade sulle spalle di lavoratori e braccianti, spremuti come limoni affinché ogni anello della catena – leggi azienda intermedia – ottenga la sua parte di bottino.

Dal governo che ha per motto “non disturbare chi produce”, però, non ci si può attendere nulla di tutto ciò. L’ultra destra si dimostra, ancora una volta, per quello che è stata storicamente: il cane da guardia della borghesia.

Per strappare queste conquiste, allora, serve che ci organizziamo. In sindacati e organizzazioni politiche. Che si manifesti nelle strade delle città. Che si scioperi nelle nostre campagne e su tutti i posti di lavoro.

Serve che la paura passi di campo. Da noi a loro. E che i tanti signori Lovato che esistono in questo Paese comincino a provarne un po’ loro. È l’unica lingua che conoscono. Quella dei rapporti di forza.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo, questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Canal red diretto da Pablo Iglesias