I numeri sono sempre chiari, spesso impietosi. E fotografano un aspetto: meno di un terzo dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite hanno avuto – nel corso della loro storia – una donna alla guida. Non solo. Attualmente, secondo l’ultima ricerca UN Women, pubblicata ad aprile scorso, il numero delle leader donne in carica è sceso dalle 17 del 2022 alle 12 del 2023. Questo lascia presagire che l’uguaglianza di genere in politica si allontanerà ulteriormente, slittando almeno di altri 130 anni. Negli ultimi dodici mesi, inoltre, alcune donne al governo sono state costrette a dimettersi o hanno lasciato per motivi diversi, personali e politici: dalla prima ministra neozelandese, Jacinda Ardern, alla premier della Moldavia, Natalia Gavrilita, fino al caso forse più noto di Sanna Marin, la leader del governo finlandese, uscita di scena all’indomani della sconfitta elettorale, frutto anche di una “bufera social” per alcune foto scattate ad una festa privata.
Analizzando le cose con troppa leggerezza, si potrebbe dire che in Italia la situazione potrebbe essere migliore, in controtendenza, poiché da quasi due anni a Palazzo Chigi siede Giorgia Meloni. E nell’ambito dell’Unione europea si potrebbe aggiungere l’esempio della presidente uscente della Commissione, Ursula von der Leyen, che corre verso il rinnovo della sua carica. E lo stesso potrebbe dirsi per Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, in procinto di ottenere il bis. Accertato che le donne al potere nel mondo sono troppo poche, persino sempre di meno, possiamo stabilire che – laddove ci siano – si muovano realmente da paladine dei diritti femminili, contribuendo a far crescere politiche progressiste e una reale attenzione verso i temi più cari alle donne? Una risposta negativa a questo interrogativo arriva da Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’università Bicocca di Milano e autrice, tra gli altri, del saggio Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica, pubblicato per Donzelli, nel quale la studiosa spiega perché «la vittoria di Meloni non è una vittoria di tutte le donne».
Serughetti si sofferma su una questione che ha tenuto banco negli ultimi due anni, il tema della rappresentanza, del rapporto tra donne e potere, alla luce di un fenomeno, giudicato dalla saggista come «piuttosto straordinario e a tratti paradossale», ovvero quello dell’ascesa delle donne al potere nel campo politico della destra. I recenti casi di donne ai vertici delle istituzioni, «ci permettono di riprendere questo tema e di rinterrogarlo alla luce di fenomeni piuttosto eclatanti e per molti aspetti nuovi» spiega la docente e scrittrice, sottolineando come «la salita delle donne al potere e la trasformazione delle condizioni strutturali che possono garantire il benessere e anche la libertà di tutte le donne non sono tra loro in un rapporto di causazione diretta».
Nel libro si sostiene l’esigenza di «abbandonare una comprensione ingenua del rapporto tra potere acquisito dalle donne nei luoghi decisionali e trasformazione della condizione delle donne. Senz’altro più donne che entrano nella sfera politica portano con sé anche una possibilità di allargare il campo di interesse della politica, maggiore attenzione alle questioni sociali, al sostegno alle famiglie, alla maternità e anche una sensibilità che gli studi rivelano essere maggiormente più femminile che maschile rispetto a questioni ambientali, o di inclusione della diversità» rimarca Serughetti. Però, aggiunge la saggista, «pensare che l’essere donna porti automaticamente con sé una visione progressista per le donne sarebbe un grandissimo errore. E lo è oggi, tanto più in modo evidente, nel momento in cui vediamo sempre più donne conquistare ruoli di potere», spiega ancora. Il caso di Giorgia Meloni è quello più rilevante, perché è la prima donna presidente del Consiglio nella storia italiana. E questo caso cade in un contesto in cui in Europa ci sono altre tre donne alla guida delle maggiori istituzioni dell’Ue: Ursula von der Leyen, che proviene dal Partito popolare europeo, verso la riconferma alla presidenza della Commissione europea; Christine Lagarde, economista di ispirazione neoliberista, al vertice della Banca centrale europea; e Roberta Metsola, cattolica e moderata, spesso su posizioni anti-abortiste, alla presidenza del Parlamento europeo.
Serughetti sottolinea come si tratti «di tre donne conservatrici, seppur in modo diverso, che non appartengono alla destra radicale ma sono conservatrici. Non stiamo parlando di figure che possono essere ‘apprezzate’ da chi invece si impegna per una trasformazione profonda della società. Questo innanzitutto ci deve portare a notare che le donne sono diverse. Non soltanto per condizioni sociali, culturali, status, ma anche diverse per le loro idee» sostiene Serughetti. La studiosa mette in evidenza come l’ascesa di donne di destra ai vertici della politica non abbia fatto crescere realmente i diritti delle donne, e finisca persino per diffondere una sorta di femminismo “distorto”.
«Oggi figure come Giorgia Meloni, in Italia, o come Marine Le Pen, in Francia, valorizzano il proprio essere donna, facendo anche uso in modo implicito ed esplicito di uno strumentario retorico, linguistico che è stato caratteristico del femminismo: cioè la forza delle donne, l’essere donne nel controllo della propria vita, capaci di competere in un mondo di uomini. E dicono in qualche modo di avere a cuore il destino delle donne, ma poi rivoltano la questione in funzione nazionalista, come fanno quando dicono che bisogna difendere le donne dal rischio che gli immigrati, in particolare i musulmani, portino indietro i nostri Paesi e introducano costumi retrogradi» è l’accusa mossa da Serughetti. Che aggiunge ancora: «Fanno un’operazione di partizione del collettivo delle donne, valorizzando soprattutto le donne e madri all’interno di famiglie tradizionali o eterosessuali. E il loro essere native. Fanno un’esaltazione dell’essere donna, ma con una commistione con l’ideologia della destra radicale, che è un’ideologia nativista, populista, tradizionalista e gerarchica» sottolinea ancora la sociologa.
L’esempio delle politiche per le donne può aiutare. «La destra ha parlato di proteggere le fasce più svantaggiate, di essere vicine alle persone mentre invece la sinistra si occuperebbe solo delle élite. Questa stessa destra, però, non ha protetto le pensioni delle donne, non ha fatto niente di quello che aveva promesso dal punto di vista dell’offerta di più protezioni, anche delle stesse madri di cui esalta il ruolo, perché in verità anche i sussidi per gli asili o i bonus sono sempre direzionati su un settore piccolo della popolazione, quello delle donne madri (e delle famiglie più numerose). Quindi si dimostra che la destra ragiona come fanno sempre le forze neoliberiste, cioè con la riduzione della spesa, vincoli di bilancio e direzionamento della spesa più che nella direzione della protezione sociale, piuttosto nel sostegno all’impresa o nella guerra. Su questo c’è anche una grande mistificazione ideologica» aggiunge Serughetti.
Eppure, già negli anni Ottanta, nel Regno Unito, anche in quel caso in ambienti conservatori e di destra, c’era già stata una donna primo ministro.
«Il caso di Margaret Thatcher ci presenta un importante antecedente, però porta con sé delle novità» rispetto a Meloni e Le Pen, sottolinea la docente. «Si pensi al fatto che queste donne vincano in contesti dove la leadership femminile è stata storicamente ostacolata e questo è il caso sicuramente dell’Italia, per cui dobbiamo interrogarci su che tipo di risorse poi queste donne riescano ad attivare, che consentano loro di conquistare la guida del Paese, che ne fa dei soggetti nuovi. In più, siamo di fronte a uno scarto rispetto a protagonisti del passato come Thatcher, dato dal fatto che donne come Marine Le Pen, in Francia, o Giorgia Meloni qui in Italia, semplicemente indossano il proprio essere donna come un vestito, che non nascondono ma nemmeno valorizzano. Questo è un po’ il caso di Thatcher, che non indossava abiti maschili: restava una donna nella sua immagine pubblica e tuttavia non valorizzava il suo essere donna, tendeva a rimuovere la differenza tra donna e uomo. Ossia siamo uguali, la mia competenza è pari a quella di un uomo: questo era il messaggio. Quindi essere donna era indifferente» sostiene ancora Serughetti.
E a sinistra, invece? Secondo la saggista, «c’è un’apertura dei partiti della sinistra alle parole chiave, ai motivi che provengono dai movimenti femministi, forse anche maggiore rispetto al passato. Elly Schlein vince la competizione per le primarie nel Partito democratico parlando di intersezionalità, della necessità di tenere stretti il tema dei diritti civili e sociali. Sta facendo un’operazione anche di grande vicinanza al lessico dei movimenti, in particolare del movimento transfemminista, del femminismo intersezionale. C’è un terreno di incontro e qualche volta l’acquisizione, da parte dei partiti politici, di parole d’ordine che provengono dai movimenti. Al tempo stesso, la divaricazione sembra grande per quanto riguarda la capacità effettiva di lavorare insieme, di trovare dei terreni di deliberazione comune, di elaborazione di idee e di proposte», aggiunge Serughetti, secondo la quale quello che è stato uno dei grandi fenomeni degli ultimi decenni, cioè la divaricazione tra partiti e società, resta vera anche per quanto riguarda i partiti della sinistra e il rapporto con il femminismo.
«Il caso Schlein è più rappresentativo di un tentativo di ricostruire un ponte, che però è molto fragile e la catena di trasmissione tra le domande che provengono dai movimenti e la rappresentanza politica sembra arrugginita, se non addirittura spezzata. Grandi manifestazioni femministe, come quella del 25 novembre scorso, non è stata solo la più grande manifestazione tout court. Ci mostra che lì ci dovrebbe essere un’attenzione speciale della politica, nel vedere dove si stanno muovendo i desideri delle persone e in particolare dei più giovani. Però, da una parte, chi milita nei movimenti condivide con la gran parte della popolazione un grande scetticismo, una grande diffidenza nei confronti della politica e dei partiti, in generale verso i meccanismi della rappresentanza, e quindi preferisce lavorare ad autorappresentare le proprie istante nelle piazze, invece di costruire dei legami con i partiti. E dall’altra parte, i partiti sono sempre un po’ in difficoltà per aver disappreso proprio la pratica dello stare nella società».
Serughetti anche nel libro mette in evidenza che questa diffidenza reciproca rende molto difficile un dialogo. «Nelle ultime pagine cito due testi che sono entrambi della fine degli anni Settanta, e precedono di poco quel reflusso che poi sarebbe stato caratteristico degli anni Ottanta e ha aperto la strada al grande ritorno al privato con il berlusconismo. Quello che non era risolto allora, non lo è neppure oggi. i partiti non si sono trasformati per rendersi più aperti, più capaci di accogliere nuove istante che provengono dai movimenti, se possibile sono soltanto peggiorati. Hanno piuttosto investito sulla leadership invece che sull’apertura alla partecipazione. Questa democrazia ha bisogno di un profondo rinnovamento, ma ancora oggi è difficile capire come può sopravvivere senza dei corpi intermedi. Se i partiti, se i sindacati servono, è essenziale che si contaminino con il femminismo ma è anche essenziale che le femministe li contaminino. È un’esigenza di ritrovare nuove connessioni».
Ma quali sono le istanze prioritarie del femminismo che bisognerebbe mettere nell’agenda politica? Secondo Serughetti, le questioni importanti sono il diritto all’aborto e il contrasto della violenza. «Sono al centro della mobilitazione femminista, su cui si giocano tante partite politiche. La violenza è un tema che tende a mettere d’accordo le diverse forme politiche, mentre sull’aborto la situazione è più polarizzata».
Serughetti, continua approfondendo il ragionamento: «La violenza sulle donne è sia un risultato sia uno strumento di perpetuazione di un ordine del dominio, che in verità coinvolge tutte le dimensioni di oppressione, quella economica, persino quella razziale. È un grande terreno di incontro di diverse istanze. L’aborto è una grande frontiera di scontro con il fronte reazionario, che vorrebbe sottrarre parti del diritto di autodeterminazione della donna. Io penso che dare un peso nuovo e centrale alla questione economica e materiale delle donne sia una priorità, anche per evitare usi parziali e persino superficiali delle battaglie femministe». Secondo Serughetti, «la battaglia contro la violenza non si può combattere dimenticandosi le differenze socio-economiche tra le donne, di status migratorio o del colore della pelle o differenza di sessualità. Sono tutte dimensioni che vanno tenute insieme. Le lotte per il lavoro sono fondamentali».
Partiti politici e dibattito nei media, però, spesso trascurano le questioni di genere, com’è successo nell’ultima grande consultazione, le Europee di giugno scorso. «I programmi elettorali dei candidati europei non hanno tenuto in considerazione le questioni di genere. I temi che riguardano l’agenda femminista sono stati trascurati. La destra dei conservatori e degli identitari ritiene che le materie culturali che riguardano l’identità nazionale, le politiche che riguardano la famiglia, la sessualità e la riproduzione debbano rimanere di competenza nazionale, e che l’Europa limiti le proprie prerogative di carattere comunitario a pochi temi: l’economia, la difesa e poco altro. Questo significa ridurre di molto il ruolo dell’Europa, nel dare indicazioni forti sulla tutela dei diritti. Non a caso, i diritti dell’aborto sono stati contrastati dai parlamentari delle forze di destra e dai Paesi che sono governati dalle destre» sottolinea ancora Serughetti.
La distanza temporale rispetto ai libri precedenti ha consentito all’autrice di affrontare un altro tema, altri interrogativi possibili intorno alla libertà delle donne, visto che in questi anni l’argomento del potere e della rappresentanza è tornato ad essere di particolare rilievo. Nel 2017 c’era stata la pubblicazione per minimum fax di Libere tutte (con Cecilia D’Elia), adesso c’è la necessità di riprendere il tema a distanza di anni, con un diverso focus tematico. Libere tutte affrontava principalmente i nodi relativi al corpo, quindi la sessualità, la maternità, l’aborto. Grandi dilemmi del femminismo che riguardano la libertà delle donne ma restava fuori il dibattito intorno alla rappresentanza, che viene affrontato in Potere di altro genere.
«Ci sono tanti tipi di femminismo. E ancora: l’antirazzismo, il femminismo nero. E poi è stato anche una grande congiunzione tra istanze antisessiste, antirazziste, il femminismo post coloniale che oggi possiamo chiamare decoloniale, perché nasce anche dall’incontro di donne che provengono da Paesi che hanno subito la colonizzazione e che oggi la subiscono in modi diversi attraverso l’imperialismo economico e culturale delle potenze occidentali e degli attori economici del nord del mondo» spiega Serughetti. «Anche nel nord del mondo i nuovi femminismi si ispirano a parole nuove del femminismo – che ancora sopravvive nel senso che sopravvivono le protagoniste – rispetto al femminismo degli anni Ottanta. Ci sono parole nuove, come intersezionalità, che mettono al centro l’interconnessione tra i sistemi di dominio e quindi tra sistemi di oppressione. E per alcune, ad esempio per le femministe radicali più legate alla tradizione degli anni Settanta, sembra mettere in ombra la specificità delle lotte femministe. C’è un dibattito interno al femminismo che poi genera grandi controversie, come quella intorno all’identità di genere, al rapporto intorno ai movimenti LGBT+, grandi questioni come quelle che hanno spaccato il femminismo italiano, come quella della gestazione per altri, delle tecnologie riproduttive. Il femminismo possiamo ancora chiamarlo al singolare, nella misura in cui troviamo che ci sia una matrice comune nella lotta all’oppressione delle donne in tutte le sue forme, però dobbiamo anche riconoscere che assume forme e strategie differenti» conclude la saggista.
Nella foto: Manifesti anti Marine Le Pene, 2017 (Celette)