La riflessione sulla storia umana più profonda, il corpo a corpo con la gabbia della religione, l'abisso del nazismo. Il viaggio fiorentino nell'opera del maestro tedesco si conclude oggi

Nel corpo a corpo con la struttura rinascimentale, elegantissima e inesorabile, di Palazzo Strozzi a Firenze, potremmo dire che Anselm Kiefer con la mostra Angeli caduti, curata da Arturo Galansino che il 21 luglio giunge al finissage, se l’è battuta quasi meglio di Anish Kapoor, artista amatissimo almeno per chi scrive, ma che nella pur bellissima mostra Kapoor Untrue Unreal, soffriva un po’ della rigidità razionale degli spazi.

Forse per la dimensione monumentale della sua arte, forse perché  Kiefer si era preparato a lungo nel suo studio di Croissy sur Seine, alle porte di Parigi, dove è stata realizzata una riproduzione in scala degli spazi fiorentini, o forse- guardando più a fondo – perché la sua arte, nel bene e nel male, è consustanziale alla tradizione occidentale, anche dal punto di vista filosofico religioso, benché ne voglia offrire una visione critica.

Sta di fatto che Anselm Kiefer è riuscito ad abitare pienamente gli spazi di Palazzo Strozzi disseminando nelle sale una sessantina di opere di dimensione colossale, dense di richiami alla lunga tradizione dell’arte sacra.  Fin dal cortile dove, contro lo spazio aperto del cielo, si leva la sua gigantesca ed epica Caduta dell’angelo, un dipinto di ben 7 metri di altezza in foglia d’oro, ma corrosa, screpolata, vissuta, che rappresenta il combattimento dell’arcangelo Michele e degli angeli ribelli, con cui l’artista tedesco celebra il dionisiaco, la ribellione romantica, contro l’ordine razionale.

L’opera di Kiefer è tutta dentro la tradizione e l’estetica giudaico cristiana ma anche- al contempo- provocatoriamente fuori, mettendo radicalmente in discussione la compagine metafisica con una inattesa vitalità della luce e del colore fisico, impastato, materico. Una luminosità e un colore – a volte sordo, bituminoso, elegiaco, eppure vivo- che catturano l’attenzione, che evocano qualcosa che va al di là della epica liturgica. Forse perché quel colore vibrante allude a una umanità non arresa, nonostante i temi della ricerca di Kiefer siano drammaticamente impregnati dal dolore dell’esilio, della memoria ferita, della cacciata.

Nato nel 1945 in Germania e cresciuto nella gabbia del cattolicesimo, Anselm Kiefer, come racconta anche nel docufilm che gli ha dedicato Wim Wenders e nel catalogo della mostra edito da Marsilio ha sempre cercato vie di fuga, di riscatto, interrogando criticamente le figure sacre, come fa anche in questa mostra fiorentina disseminata di ironiche sculture che rappresentano donne con millenari macigni sulla testa. Con le sue opere Kiefer contesta l’asettica immagine della madre madonna, icona priva di vitalità e di affetti. Ma forse non riuscendo a creare un’immagine femminile diversa, oseremmo dire, ne resta schiavo pur usando il registro corrosivo della dissacrazione.

L’altro importante filone che innerva la mostra fiorentina di Kiefer è il senso di colpa per le atrocità del nazismo, di cui in modo coraggioso e geniale l’artista riscontra radici nel logos greco. Provocatoria e potente è l’immagine del gesto nazista per antonomasia, la mano tesa, che nelle sue opere viene riprodotta e condannata a futura memoria, ricordando coraggiosamente quanto richiami gesti che si riscontrano nella statuaria greca. Ed è questa la parte della sua opera che solleva gli interrogativi più brucianti e radicali.

Interessante, nell’esplorazione che Kiefer compie della storia umana, anche la sua ricreazione di quella più antica, quella preistoria o storia profonda, che precede l’invenzione malefica dei monoteismi. In Palazzo Strozzi l’artista tedesco la evoca in una sala foderata di pitture su tutti i lati, soffitto compreso, e aperta a prospettive molteplici tramite l’uso di specchi. Quasi fosse la ricreazione di una grotta di arte rupestre. O una sorta di wunderkammer dove faustianamente e incessantemente l’artista trasforma la materia, creando immagini, impastando il pigmento con la terra. In questo teatro della luce, torna fortissimo il richiamo alla tavolozza scura e alla luce radiante dei dipinti di Tintoretto, con il quale Kiefer aveva giù ingaggiato un “dialogo” qualche anno fa con una mostra in Palazzo Ducale a Venezia.