L'atleta afgana alle Olimpiadi insieme alle gambe ha portato le parole che vanno dette ma lì non si possono dire: “educazione” e “i nostri diritti” perché il mondo fosse costretto a ricordare la violazione dei diritti umani del regime dei talebani

Kimia Yousofi, una dei sei atleti in gara alle Olimpiadi di Parigi per l’Afghanistan, ha corso i 100 metri con due secondi di distacco dalla vincitrice. 

Sul suo pettorale, insieme al numero assegnato dall’organizzazione olimpica, ha scritto “educazione” e “i nostri diritti” perché il mondo fosse costretto a ricordare. Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan è avvenuto ormai tre anni fa. Tre anni in cui l’occidente, Europa inclusa, continua a ripetere che non lascerà sole le donne che sono lasciate sole. 

«Penso di sentirmi responsabile per le ragazze afghane perché non possono parlare», ha sottolineato Yousofi dopo la gara. «Non sono una persona politica, faccio solo ciò che ritengo che sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afgane. Posso dire alle persone cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport». 

Ha ragione Yousofi: il primato dei diritti è una questione prepositiva, viene prima di qualsiasi analisi su governo e governati. Dovrebbe stare prima nelle pagine dei giornali. 

Prima della sua nascita i genitori di Yousofi erano scappati dall’Afghanistan per andare in Iran. Nel 2016, quando i talebani erano esclusi dal governo, lei è tornata per allenarsi in patria. Quando i talebani con l’enorme aiuto del nostro disinteresse sono tornati al governo Yousofi è fuggita in Australia. Alle Olimpiadi insieme alle gambe ha portato le parole che vanno dette ma lì non si possono dire. E nonostante la distrazione della cronaca sportiva quelle parole sono rivolte a noi. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Kimia Yousofi (dal suo profilo facebook)