ll Guča Trumpet Festival è arrivato quest’anno alla sua 63esima edizione ed è una grande festa fra tradizione e voglia di futuro, coinvolgente e straniante in una nazione dall'identità in crisi, dove serpeggia il vento gelido del negazionismo

«Non sapevo che si potesse suonare la tromba in questo modo». Sono le parole di Miles Davis di ritorno da Guča, dopo aver assistito a quello che viene definito il Woodstock dei Balcani. Il Guča Trumpet Festival è un concorso di tromba arrivato quest’anno alla sua 63esima edizione. Nato nel 1961 come un modo per preservare la musica tradizionale, in una Jugoslavia sempre meno rurale e sempre più urbanizzata, ha contribuito a tenere in vita la passione per questo strumento e a far conoscere la musica balcanica.

foto di Stefano Bernardi

Il festival è infatti famoso in tutto il mondo, soprattutto grazie alle partecipazioni di Emir Kusturica e Goran Bregović. La passione serba per gli ottoni risale al 1831 con la creazione della prima orchestra militare per volere del principe Miloš Obrenović, leader della prima e della seconda rivolta serba contro le forze dell’Impero ottomano. Ancora oggi, il suono della tromba accompagna tutti i momenti più importanti della vita dei serbi. Per tre giorni all’anno, Guča, paesino della regione di Dragačevo di circa duemila abitanti nel sud della Serbia, viene inondato da migliaia di persone.

Foto di Stefano Bernardi

Atterriamo a Belgrado, dove quasi tutti i visitatori, provenienti dalle varie parti del mondo, fanno tappa. Prima di abbandonarci al vortice del festival, decidiamo di dedicare mezza giornata a una passeggiata nello splendido centro storico. Sui muri della città ovunque ci sono stencil raffiguranti il generale Ratko Mladić, «il macellaio della Bosnia», condannato nel 2017 all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica dell’11 luglio 1995. Furono 8000 i musulmani bosniaci uccisi e gettati nelle fosse comuni dai miliziani serbi, al culmine del piano di pulizia etnica di Slobodan Milošević. Su un palazzo di piazza della Repubblica si legge un murales a caratteri cubitali che recita «l’unico genocidio nei Balcani è stato quello contro i serbi». Le recenti elezioni, segnate da accuse di irregolarità da parte dell’opposizione, hanno visto una netta affermazione del Partito progressista serbo e l’elezione di Aleksandar Vučić come presidente. Lo stesso Vučić si è recentemente opposto alla proposta dell’istituzione di una giornata di commemorazione dei fatti di Srebrenica poi votata dall’Onu, non riconoscendo il genocidio. Nel comunicato stampa ufficiale del festival si legge che Guča, fin dalla sua nascita, è riuscito a mantenere intatto lo spirito della tradizione, senza farsi intaccare da nessuno degli eventi politici che hanno coinvolto la Serbia.

foto di Stefano Bernardi

Partiti dalla stazione di fronte al Museo della Jugoslavia, saliamo su un pullman popolato da tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi, americani e italiani. Il più entusiasta di loro è un fedelissimo, alla sua nona edizione del festival. Dopo tre ore di viaggio e infiniti tornanti, si arriva a Guča. Subito si vedono giovani e meno giovani accampati ovunque. In questi tre giorni, il paese diventa un enorme campeggio con tantissime tende fissate nei parcheggi, nei prati, lungo il torrente, nei giardini delle case.

foto di Stefano Bernardi

Leggendo il programma non troviamo né Kusturica né Bregovic, ma se Guča è la Woodstock dei Balcani, scopriamo che il suo Jimi Hendrix è senza ombra di dubbio Boban Markovic. Il leggendario musicista ha smesso di gareggiare nel 2001 dopo aver vinto numerose edizioni e ora, insieme al figlio Marko, si esibisce in tour in tutto il mondo con la sua band. Alcuni sostengono che Marko Markovic sia il miglior trombettista al mondo. Oltre all’incredibile esibizione sul palco dello stadio, riusciamo ad assistere, intorno a un tavolo del ristorante principale, ad un vero e proprio concerto improvvisato per alcune personalità di spicco tra cui l’attore montenegrino Bozidar Zuber. Impossibile non farsi conquistare dai virtuosismi della tromba di Marko e dai ritmi incalzanti scanditi dagli altri musicisti della band, che accumulano decine di banconote infilandole nei tasti degli ottoni, tra fiumi di birra e di rakija, nell’euforia generale.

foto di Stefano Bernardi

Il festival è organizzato in modo simile a una grande festa di paese, con tanto di autoscontro, punching ball e girarrosti. Rispetto ai picchi degli anni passati (con 300mila visitatori nel 2002), tutto sembra un po’ sottotono e la presenza di giovanissimi è scarsa. Chiacchierando con alcune ragazze e ragazzi scopriamo come il festival sia stato abbandonato gradualmente dalle fasce più giovani, che lo considerano una sorta di parata trash del nazionalismo serbo. Passeggiando per le strade di Guča, in effetti, si rimane confusi riguardo al confine tra tradizione e nazionalismo. Si incontrano intere famiglie sorridenti che indossano il berretto cetnico, neonati compresi, e gruppi di ragazzi dallo sguardo truce che salutano con le tre dita, simbolo dell’ortodossia religiosa, e indossano magliette raffiguranti Mladić.

Foto di Stefano Bernardi

Sui palchi principali si sfidano le varie orchestre con un repertorio che spazia dalla musica del periodo austro-ungarico a quello turco-ottomano, fino ad arrivare alla vera e propria hit contro la guerra “Kalashnikov” di Bregovic. Si suona anche, come ogni anno, “Veseli se srpski rode”, controversa canzone che inneggia alla grandezza della Serbia, adottata come inno dai nazionalisti, per poi passare poco dopo a “Bella Ciao” e “Fischia il vento”. C’è anche spazio per ascoltare alcune canzoni contemporanee rivisitate, da “Du Hast” dei Rammstein a “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e Poveri. Vincerà il concorso Dejan Petrović, figlio di Mico altro mostro sacro della musica balcanica, dando vita ad un momento particolarmente emozionante tra le lacrime di molti del pubblico. È però lontano dai palchi ufficiali, tra i tavoli, che le orchestre serbe, più legate alla tradizione, e quelle gitane, più sensibili alle influenze sudorientali e turche, danno vita a una sfida giocosa a chi suona più forte. È qui che si vive la vera essenza di partecipazione senza confini nazionali di questo festival. È forse questo l’elemento che da tanti anni fa interessare persone di tutto il mondo a questo evento e a questa musica. I musicisti si avvicinano sempre di più alle orecchie delle persone fino al contatto fisico, creando una bellissima atmosfera di condivisione, senza tempo, lontana dalla guerra e dalla storia così complessa di questa terra.

foto di Stefano Bernardi

Sullo sfondo del festival rimane lo specchio della ricerca di un’identità perennemente in crisi, continuamente tentata dall’estremismo del nazionalismo, ma che qui trova la necessità di rinunciare alle barriere per abbandonarsi ai gesti, alle espressioni, ai suoni e agli odori, per rivelarsi profondamente umana. Ci sarà un tempo per tutto. Prima c’è la festa.

 

testo e foto di Stefano Bernardi

L’autore: Stefano Bernardi è psichiatra