Con una destra al governo nostalgica ripercorrere la vicenda dell'assassinio di Matteotti compiuto dalla ceka fascista e rileggere il suo pensiero è più importante che mai, dice il giornalista e autore di "Matteotti, dieci vite", che il 7 ottobre viene presentato a Milano

La moglie Velia lo chiama «signor dieci vite». Perché è questo che lui desidera, avere dieci vite. E, in qualche modo, le vive per davvero. È proprietario terriero, sindacalista, amministratore locale, soldato antimilitarista, giurista brillante e polemista raffinato, deputato socialista, segretario di partito, primo degli antifascisti, nonché padre e marito, per quanto un po’ assente. Nel centenario del suo omicidio, Vittorio Zincone, giornalista e autore di Piazzapulita, in una biografia puntuale e appassionata, Matteotti dieci vite (Neri Pozza, che viene presentata il 7 ottobre alla Casa della Memoria a Milano) restituisce la figura di un uomo – prima ancora che un politico – curioso, puntiglioso, inarrestabile, la cui voce e le cui idee riemergono salde e commoventi attraverso gli avvenimenti pubblici e privati, i carteggi con la moglie, gli articoli sferzanti, i discorsi parlamentari. 

Zincone, partiamo dall’epilogo: l’omicidio.

La cronaca è nota: il 10 giugno del 1924, alle 16.30, la Ceka fascista attende Matteotti sul lungotevere Arnaldo Da Brescia. Lo carica in macchina, lo accoltella e lo scarica nel bosco della Quartarella, dove il corpo viene ritrovato il 16 agosto. Ancora oggi non mancano speculazioni folli, se non manipolatorie, sul mandante dell’assassinio. Mussolini il 3 gennaio del ’25 ne rivendica la responsabilità morale e politica, ma non quella penale. Eppure basta fare qualche passo indietro: nel gennaio del ’24 Matteotti pubblica un opuscolo dal titolo Un anno di dominazione fascista. Vi si legge: «I numeri, i fatti e i documenti dimostrano… che mai tanto come nell’anno fascista, l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la nazione in due ordini: dominatori e sudditi». A questo punto della sua vita (o delle sue vite) di antifascita, Matteotti è già stato aggredito, rapito, seviziato, allontanato per sempre da casa e minacciato di «ritrovarsi con la testa rotta (ma proprio rotta)». Sa bene che cosa rischia, e non si ferma. Alla Camera dei deputati, il 30 maggio 1924, contesta le elezioni del 6 aprile, elencando le violenze commesse dai fascisti. Quindi, al compagno a fianco, dice: «Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Serve altro per capire chi sia il mandante?

A Matteotti sono intitolate vie e piazze. Si è immortalato l’eroe, ma l’uomo e il pensiero politico sono stati ignorati per decenni. Eppure le sue idee, per esempio sulla scuola, sono di un’attualità sconcertante.

Ho voluto toglierlo dal piedistallo e raccontare l’uomo nella sua interezza. Matteotti non è uno che si fa amare: è pedante, intransigente. Anche con Velia, nonostante si amino, è poco presente e a tratti scostante, quasi crudele. Ma come politico è straordinario, perché dice e fa sempre le cose giuste, e nel modo giusto. Mi piace pensare che possa essere un esempio raggiungibile. È un socialista riformista, ma radicalissimo. Crede in un cambiamento graduale che parta dal basso, attraverso riforme sociali e investimenti nell’istruzione. Ha una chiara visione di cosa dovrebbe essere la scuola, cioè «qualche cosa per cui almeno per quattro o cinque anni la gente del popolo… impari qualcosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni. Vogliamo che questo insegnamento sia libero, poetico, astratto, perché ne godano per una piccola parte di tempo e ne portino con sé il ricordo per qualche anno». Oggi che ci ritroviamo con l’alternanza scuola-lavoro, e i nostri ragazzi trattati come polli da batteria, risultano modernissime queste parole pronunciate 105 anni fa.

È antimilitarista: un’altra delle sue avventurose vite?

Nel 1914, Mussolini, allora dirigente del Psi e direttore dell’Avanti, cambia posizione sulla guerra e invita i socialisti ad abbandonare il neutralismo. Matteotti non è che un giovane consigliere locale, ma ha già una vis polemica straordinaria. Scrive un articolo intitolato “Mussoliniana”, e denuncia la doppiezza paracula del futuro duce: «Quando un uomo arriva a comporre un manifesto per la neutralità assoluta, a lanciarlo per tutta Italia come segno di un partito, e venti giorni dopo ne parla come di un puro esercizio dialettico di propaganda, dal quale l’azione deve essere diversa, anzi opposta, il giudizio è chiaro…». E nel “maggio radioso” del 1915 scrive un altro articolo, “L’ultima vergogna”, in cui smaschera i meccanismi  della propaganda: «Doveva finire così. Cioè, doveva cominciare così: la povera bestia (il popolo) doveva andare al mattatoio gridando gioiosa, le bandierine multicolori infisse sul capo…. Prepariamoci ormai a vedere dilagare la menzogna; prepariamoci a leggere vittorie sopra vittorie…. Orsù lavoratori, che fate, levatevi il cappello, passa la patria, e ormai più non ci sono i socialisti, passa la rovina, passa la guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata». L’estate dello stesso anno si ammala ai polmoni. Viene riformato. A gennaio del ’16 sposa Velia. Potrebbe partire in viaggio di nozze, avere una bella vita. Invece durante una seduta del Consiglio provinciale di Rovigo  si scaglia così duramente contro la guerra che viene denunciato per sedizione, processato e condannato. Non finisce qui. L’esercito lo ripesca, non importa che sia riformato: lo spediscono in Sicilia, per trenta mesi. Nel 1919 viene eletto deputato e arriviamo al 1921: divampa la violenza fascista e Matteotti comincia a denunciare il pericolo di una dittatura. 

Perché è importante, oggi, recuperare il pensiero e la figura di Matteotti?

Oggi una parte della classe dirigente tenta di riscrivere la storia. Il presidente del Senato dice che a via Rasella c’era una banda di musicisti pensionati e non dei nazisti in armi. Il presidente del Consiglio dichiara che alle Fosse Ardeatine sono stati massacrati degli italiani, e non degli antifascisti e degli ebrei. Serpeggia un abbaglio storico, secondo cui il fascismo sarebbe diventato cattivo dal ’38 con le leggi razziali, o dal ’40 con l’entrata in guerra, lasciando intendere che ci sia stato un buon Mussolini, poi traviato da Hitler. Matteotti denuncia alla Camera la natura violenta e corrotta del fascismo già nel gennaio del 1921, diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime. Un mese prima dell’omicidio, a un professore universitario che lo invita a lasciare la politica, risponde: «Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Nell’Italia di Mussolini, “il posto più pericoloso” è quello di deputato del Regno. Matteotti è un guastafeste, un “rompipalle” che non arretra davanti a nulla. I suoi allarmi non vengono ascoltati. La sua biografia è anche la triste storia di uno Stato liberale che si arrende in silenzio. Oggi, nel vuoto di radicalismo e di proposte profondamente riformiste, i discorsi di Matteotti risuonano incredibilmente attuali e potenti. Dobbiamo rileggerlo, sempre e ovunque, e soprattutto nelle scuole. Dobbiamo regalargli… un’undicesima vita.