Di fibromialgia non soffrono solo donne in età adulta, ma anche uomini e bambini. Da tempo Cfu- Italia lo va ripetendo, cercando di fare capire che «siamo di fronte a un’emergenza che rischia di diventare una voragine per il Sistema sanitario nazionale», è il grido della Presidente Barbara Suzzi, e del direttivo. Non riconosciuta ancora nei Lea ( livelli essenziali di assistenza), rischia di “regredire” e “scomparire” dai radar della sanità pubblica con l’ipotesi dell’autonomia differenziata. A soffrirne sono in tanti ma è sui numeri – anzi, sull’assenza di numeri – che si gioca l’ambiguità del riconoscimento definitivo. «Non ci sono censimenti, anagrafi, nulla. Le uniche stime riconosciute sono quelle del 3 per cento della popolazione mondiale. Ma in Italia, siamo almeno 3 milioni. Mancano infatti, oltre ai censimenti territoriali e nazionali, le diagnosi. E, cosa ancor più grave, c’è chi non è conteggiabile perché essendo una malattia fortemente stigmatizzata, molte persone affette non lo dichiarano neppure alle visite del lavoro o nel posto di lavoro».
I tre milioni di persone affette da questa patologia sono dunque per difetto. Ma è sui piccoli che Cfu- Italia, come è stato ribadito nella conferenza stampa che si è tenuta a Montecitorio, per sensibilizzare la politica a fare sintesi dei disegni di legge depositati e fermi in Senato – tra cui uno di Cfu sottoscritto da tutti i partiti – ha deciso di porre l’attenzione. «Noi chiamiamo, la politica promette, presenzia, risponde agli appelli con una benevolenza che non si traduce in azioni. Ma le malattie croniche, come lo è la nostra, sono quelle che faranno scoppiare il Ssn e il fatto che ci siano molti ragazzini a soffrirne deve imporre atti di coscienza e se non di coscienza almeno di lungimiranza». Parole con cui tra l’altro si sdogana la fibromialgia come patologie delle donne, magari depresse, e come malattia di genere.
La storia è quella di Nicholas, 13 anni, del milanese. A dieci anni un giorno comincia a lamentare dolori alle gambe e in tutto il corpo. La mamma Katyuscia e il padre Marco non si preoccupano. Il ragazzino è molto vivace, gioca a calcio, si sarà sforzato troppo, succede. Dopo giorni la situazione non migliora. Nicholas non si lamenta mai, quindi va creduto, tanto più che accenna a una stanchezza e a una spossatezza descritte nei particolari. Nell’arco di poco più di una settimana, una mattina, all’improvviso, non cammina più. Panico. Viene portato al Pronto Soccorso dell’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi seduto su una carrozzina che i genitori avevano in casa. Gli vengono fatte tutte le analisi e i genitori vengono liquidati come eccessivamente accudenti e viene indicato loro di toglierli il supporto, invitano la madre ‘a stare calma’. Possono però constare coi loro occhi che il ragazzino non riesce a reggersi in piedi, ipotizzano quindi di inviarlo a ortopedia. La madre, per evitare altre umiliazioni, decide di portarlo via. La coppia si dirige al San Raffaele. Stesso iter, stesse spiegazioni, stessi consigli.
Katyuscia ricorda all’improvviso di una collega al cui figlio anni prima era stata diagnosticata la fibromialgia. La contatta, prende appuntamento dal reumatologo cui si era rivolta, il bimbo viene accuratamente visitato, ascoltato, creduto. La diagnosi è chiara, fibromialgia.
Considerazioni: il ragazzino non mentiva, la madre non era eccessivamente premurosa, la fibromialgia esiste. I genitori da un lato hanno provato sollievo, quello di dare un nome alla patologia del figlio. Dall’altro, hanno subito compreso che la qualità della sua vita sarebbe stata fortemente penalizzata. E così è stato e così è. Nicholas, che frequenta la terza media, certe mattine non riesce ad andare a scuola, anche se fortunatamente il corpo docenti ha compreso la situazione e ha fatto in modo che tutta la classe avesse contezza delle difficoltà del compagno, cui in certi momenti viene concesso di riposare in una stanza destressante con un cuscino. Il che evita sul nascere potenziali atteggiamenti di sfottò o bullismo. «La stessa cosa, purtroppo, non era successa alle elementari, dove lo trattavano come se facesse una recita e nei momenti di fatica veniva ridicolizzato». Le attività sportive sono state azzerate, perché divenute impraticabili. La socialità è parzialmente compromessa, perché la stanchezza e il dolore impattano. Lui resiste. Sa quando può farcela e quando no, conosce i suoi limiti. Per ora cerca di non dimostrare neppure il suo rammarico, comunque percepibile da tanti piccoli gesti, quando ad esempio stringe i pugni di fronte a una richiesta di amici che è costretto a rifiutare, perché sa che non può mantenere il passo, tirare tardi, se non pagando pegno. Stringe i pugni, come si fa per non piangere. Ora non usa più la carrozzina, fa cure ad hoc con vitaminici etc, è correttamente seguito dal reumatologo di fiducia. Ma a preoccupare i genitori è il futuro, ossia la capacità di frequentare le scuole superiori e poi lavorare, o meglio trovare un lavoro adeguato. E la consapevolezza che condurrà una vita medicalizzata. Realizzarsi secondo quanto gli è consentito, non secondo quanto avrebbe desiderato. Sarà questo, i genitori lo sanno, lo scoglio. «Se ci fosse una legge – afferma la madre – non saremmo costretti a dover dipendere dalla sola benignità altrui. Potremmo esigere dei diritti e soprattutto di fronte a certi medici io non mi sarei sentita dire ‘Signora, lei lo sa vero che la fibromialgia non esiste?”.
Di Nicholas, assicurano in Cfu-Italia, ce ne sono tanti. I bambini non hanno sovrastrutture, vogliono giocare, vivere. «Davvero non vogliamo occuparcene? Non siamo il Paese della famiglia, dell’assistenza, della natalità, della sanità costituzionalmente garantita?», incalza Suzzi.
Intanto, a più di un mese dalla conferenza stampa a Montecitorio, la politica continua a tacere.
L’autrice: Camilla Ghedini è giornalista e collaboratrice di Left