Ecco quali ripercussioni le elezioni Usa avranno sul mercato del lavoro europeo. A rischio molti posti di lavoro in un settore strategico, quello tecnologico. Già oggi la differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa è molto ampia. E il duo Trump -Musk aumenterà lo iato. Dobbiamo agire in fretta

A quanto pare, una tra le prime, estremamente vistose, conseguenze dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sarà che il capitano della prima casa produttrice di auto elettriche, del più grande fornitore della Nasa di vettori e navi spaziali, del proprietario di un social network noto per la disinvoltura dei suoi algoritmi, entrerà nella nuova Amministrazione. Elon Musk, capo di Tesla, SpaceX e X (il fu Twitter), sarà a capo di un dipartimento per la spending review del governo federale degli Stati Uniti. In pratica avrà, occhio e croce, mano libera per demolire quel medesimo governo. Il cielo aiuti i dipendenti e gli utenti dei servizi pubblici federali.
Dunque, quello che potrebbe essere indicato come leader (politico) del super-cartello delle maggiori imprese High Tech degli Stati Uniti – e perciò del mondo – non sarà più un interlocutore privato di quel governo. Ne sarà parte.

In molte e recenti occasioni abbiamo citato un ragionamento di Mario Draghi, offerto alla stampa in occasione del Consiglio informale dell’Ue a Budapest, in merito al Rapporto sulla produttività da lui curato. Ci permettiamo di riproporlo: dalla prospettiva del Rapporto, quindi del rilancio della competitività in Europa, un paio di cose che vengono in mente sono che questa Amministrazione Trump sicuramente darà un ulteriore grande impulso al settore tecnologico, al cosiddetto High Tech, dove noi siamo già molto indietro. E questo è il settore trainante della produttività. Già ora la differenza nella produttività tra gli Stati Uniti e l’Europa è molto ampia. Quindi noi dovremo agire. E gran parte delle indicazioni del Rapporto sono su questo tema.

Con buona pace dell’economia di mercato, i principali pilastri della quale sono la libera iniziativa e, perciò, la concorrenza, un piccolo numero di giganti dell’High Tech americana, che hanno come soli concorrenti le imprese del capitalismo a trazione governativa cinese, guida la produttività mondiale e, già che c’è, mette direttamente le mani in pasta nella nuova Amministrazione Usa.

Il malinconico contrappunto a questo stato delle cose potrebbe essere indicato in quanto fotografato, per quel che riguarda il tessuto produttivo italiano, dall’ufficio studi della Cgia di Mestre in un rapporto sulla condizione del credito delle imprese italiane. Imprese, per lo più, piccole e micro. Quella vantata tradizione italiana della piccola imprenditoria che, nella globalizzazione, respira sempre più faticosamente.
In poche parole «sono quasi 118mila le imprese italiane – spiega il Rapporto – che si trovano a rischio usura».
«Si tratta – prosegue la Cgia – prevalentemente di artigiani, esercenti, commercianti o piccoli imprenditori che sono “scivolati” nell’area dell’insolvenza e, conseguentemente, sono stati segnalati dagli intermediari finanziari alla Centrale dei rischi della Banca d’Italia. Di fatto, questa “schedatura” preclude a queste attività di accedere a un nuovo prestito». Con la conseguenza che «chi finisce nella black list della Centrale dei rischi difficilmente può beneficiare di alcun aiuto economico dal sistema bancario, rischiando, molto più degli altri, di chiudere o, peggio ancora, di scivolare tra le braccia degli usurai».

Ora, esistono, sì, dei Fondi di solidarietà che hanno il compito di sottrarre le imprese alla spirale dell’usura. Ma si tratta di misure più che insufficienti, di fronte a problemi indubitabilmente strutturali. In un sistema produttivo provato dalla crisi industriale dell’intera Unione Europea – crisi che comincia ad aggredire, ormai, anche il terziario – e che si deve guardare dallo strapotere dei concorrenti globali, le misure proposte da Mario Draghi, accolte dallo scetticismo di molti, non sono un attacco di “benaltrismo”. Piuttosto, sono quel che si potrebbe definire il minimo sindacale per dare un futuro al nostro sistema economico.

 

Il fermaglio di Cesare Damiano. L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare