Quando affrontiamo la violenza maschile contro le donne non possiamo essere tutti d’accordo. Chi non è pronto a condannare la violenza contro le donne? Nessuno. Eppure, se scaviamo un po’ scopriamo che dietro la facile condanna si possono trovare sia la riconferma dell’oppressione di cui la violenza è espressione, sia l’apertura di un processo di trasformazione.
Se la violenza di genere non è un’entità oscura, estranea alla nostra normalità ma è il frutto di una cultura condivisa, di un modo di pensare le relazioni, di un immaginario pervasivo della sessualità, di rappresentazioni consolidate delle attitudini e dei ruoli di donne e uomini, allora ci accorgiamo che è impossibile contrastarla senza mettere in discussione questo universo condiviso. E farlo senza agire un conflitto.
Spesso le campagne istituzionali, le iniziative legislative, le analisi e le ricette proposte dai media contro la violenza contribuiscono a rimuovere un’assunzione di responsabilità della società e ripropongono proprio quel contesto culturale in cui la violenza si genera, trova le proprie giustificazioni e legittimazioni. Le iniziative di sensibilizzazione e, spesso, i discorsi degli esperti da talk show ci propongono l’immagine di donne deboli e bisognose di protezione e la nostalgia per un ordine paterno che insegnava gli uomini a contenere le proprie pulsioni. Ma è proprio l’esercizio della protezione, della guida e del controllo maschile che legittima l’uso della forza e dell’arbitrio, ed è proprio l’erotizzazione della donna preda, oggetto delle pulsioni maschili, a naturalizzare l’idea che nel gioco delle parti tra i sessi, tra soggetto e oggetto di desiderio, la conquista del corpo femminile ricorra alla forza, al potere, al denaro.
La violenza maschile contro le donne è uscita dall’ombra in cui era stata relegata in passato, ma per ritrovarla spettacolarizzata e strumentalizzata. Il discorso pubblico la racconta come patologia individuale o espressione di culture estranee. In questo modo il “panico sociale” ha l’effetto paradossale di rassicurarci: non ci chiama in causa, non ci mette in discussione, possiamo delegare all’apparato penale il problema e, così, rimuoverlo. E se questo rafforza le narrazioni paranoiche di una società circondata e minacciata che deve chiudersi per difendersi, non è per caso. Nella difesa del territorio e dei corpi delle “nostre donne” come parte del territorio si intrecciano allarme xenofobo e richiamo patriarcale. E nella rappresentazione della minaccia rappresentata dai migranti c’è una proiezione razzista e inferiorizzante: i neri portatori di una natura maschile non civilizzata, incapace dell’autodisciplinamento proprio dell’uomo occidentale. Purtroppo la strumentalizzazione del tema della violenza contro le donne per alimentare (o inseguire) spinte xenofobe, non nasce oggi con le destre: lo hanno fatto esponenti del “fronte politicamente corretto” come Veltroni che, dopo l’uccisione di Giovanna Reggiani, indicò “i rumeni” come pericolosi.
Il 2023 rappresenta un passaggio significativo che mostra il carattere contraddittorio e conflittuale della percezione pubblica della violenza di genere. L’11 novembre viene uccisa Giulia Cecchettin: l’immagine della coppia di “bravi ragazzi” giovanissimi aveva alimentato la partecipazione di massa alla tragedia. Pochi mesi prima aveva suscitato emozione l’uccisione di Giulia Tramontano, al settimo mese di gravidanza, da parte del compagno Alessandro Impagnatiello.
A luglio avviene a Palermo lo stupro collettivo di una ragazza di 19 anni fatta ubriacare da sette coetanei. Il caso colpisce l’opinione pubblica per l’età degli autori e per l’apparente indifferenza degli uomini coinvolti emersa dalle testimonianze e dalle intercettazioni. Un mese dopo emerge il caso di due preadolescenti abusate per mesi da un gruppo di 15 giovanissimi a Caivano. Il governo interviene sul posto, e approva, per decreto, “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile” che inasprisce le pene per reati commessi da minori.
Il fatto nuovo sono, però, le parole della sorella e del padre di Giulia, che indicano la radice patriarcale della violenza e chiedono agli uomini di essere “agenti di cambiamento”. Ma la “vittima” o la sua famiglia devono esporre la propria sofferenza senza pretendere di avere un punto di vista su ciò che ha provocato quella sofferenza. Se mettono in discussione “l’ordine di genere” che ne è alla radice, l’empatia si incrina, si scatenano, gli haters sui social e i media giungono a insinuare dubbi su un opportunismo del padre o su un comportamento della sorella “disordinato” ed eccessivo, fino a commentare la lunghezza della gonna indossata al funerale di Giulia.
Qualcosa era avvenuto anche sul terreno dei consumi culturali. Il film C’è ancora domani, batte tutti i record con milioni di spettatori nelle sale, proiezioni nelle scuole e premi di rilievo. Sempre nel 2023 il film Barbie registra 5,5 milioni di spettatori. La loro diffusione produce di per sé uno spostamento nel discorso pubblico, sollecita una riflessione sugli stereotipi di genere in un pubblico estraneo al dibattito sociale e politico sul tema. La manifestazione del 25 novembre a Roma, promossa da “Non una di meno” vede una partecipazione enorme.
Si è aperta, insomma, una frattura che ha portato sindacalisti, editorialisti, intellettuali, semplici cittadini, a prendere parola, dando una visibilità mai registrata prima a una riflessione critica maschile sulla “cultura della violenza”. Voci differenti per approccio, profondità e consapevolezza ma che insieme determinano un fatto nuovo.
Oggi si pone il problema di come tenere aperta questa frattura: dare visibilità e spazio alle esperienze di impegno maschile nella critica all’ordine di genere, ai ragazzi che scelgono percorsi di studio critici sui modelli di mascolinità, agli uomini che cercano di essere padri differenti, agli uomini che cominciano a vedere la miseria che si cela nel potere e nel privilegio e vogliono essere “agenti di cambiamento”.
Al contrario di quanto pensa il preside della scuola che ha vietato il minuto collettivo di ricordo di Giulia Cecchettin, invitando gli studenti a viverlo in una dimensione privata, dobbiamo riconoscere che quella in gioco è una questione tutta politica perché riguarda le relazioni di potere tra le persone, i loro spazi di libertà, la colonizzazione dei loro desideri e delle loro relazioni da parte di un immaginario fondato sul dominio.
Ma c’è anche una dimensione politica più immediata: il cambiamento in corso nelle relazioni tra i sessi e nei ruoli e modelli di genere è oggi al centro della offensiva ideologica delle destre e dei nazionalismi populisti. Cresce l’ostilità verso gli stranieri, e verso le vite che non corrispondono alla norma, crescono i nazionalismi, crescono le spinte all’egoismo, alla competizione, alla diffidenza. Ma sempre più ricorrente è la postura violenta che si basa sul “vittimismo dei dominanti”: Trump parlando della prima potenza economica e militare mondiale, descrive un’America colonizzata, invasa e accerchiata. Le retoriche sull’invasione, sui complotti ostili, sulla dittatura del politicamente corretto, hanno molte assonanza con il vittimismo maschile contro l’aggressione femminista, contro le discriminazioni subite dai padri separati, contro le pari opportunità.
La politica ha tradizionalmente tematizzato la questione femminile, o prima la questione meridionale, ma non riusciamo a vedere che c’è un’enorme questione maschile: il fantasma del maschile attraversa continuamente la scena pubblica ma è talmente “naturalizzato” da risultare invisibile nelle nostre riflessioni sulla democrazia e la sua crisi.
Il modello maschile è stato riferimento nella stagione neoliberista dell’individualismo proprietario, del sogno del cittadino maschio, bianco, adulto eterosessuale, produttivo, padrone e imprenditore di sé, e capace di liberarsi dai legami sociali. Sogno poi tradottosi nell’incubo della solitudine ai tempi della crisi in cui il tuo fallimento è la tua colpa. lo abbiamo incontrato con il berlusconismo e poi con la figura del severo professore che riporta la società all’ordine dopo aver troppo goduto, per giungere al “capitano”, che pensa prima agli italiani e propone la rivincita contro un nemico indefinito.
Nelle analisi della vittoria di Trump, e prima delle vittorie delle destre in Europa si propongono, invece, due letture che da differenti premesse, giungono alle stesse conclusioni: una, che potremmo attribuire a un economicismo arcaico, ci dice che “il popolo vota in base agli interessi e non ai valori” e abbandona le sinistre che hanno smesso di difendere i lavoratori per occuparsi delle minoranze sessuali o delle donne.
La polarizzazione arretrata e ingenua tra diritti sociali (la materialità del riferimento al lavoro e la scientificità dei rapporti economici) e diritti “civili” che invece rimanderebbero a “sovrastrutture” (Ma cosa c’è di più materiale della vita, dei nostri corpi?) non va oltre la dimensione istituzionale, di “governo” dei processi della politica incapace di misurarsi con la dimensione anche “inconscia”, delle emozioni, delle paure, dei desideri. E così non coglie quanto le destre vincano non per i propri programmi, ma per la capacità di parlare alla frustrazione al rancore e allo smarrimento.
Un’altra posizione “assume” le radici delle spinte xenofobe per una strategia che mescola subalternità e “doppiezza” (meglio se impugno io i respingimenti, meglio se impugno io il bisogno di patria che non lasciarla alla destra). Chi sceglie illusoriamente questa scorciatoia non vede che lo stigma omofobo, la misoginia, la inferiorizzazione e demonizzazione dello straniero sono parte di un apparato di potere e di dominio: tenta una competizione, un conflitto, senza rendersi conto di restare interno a un ordine simbolico dominante.
Non è possibile stare in questa contesa in una posizione non subalterna se non si è capaci di pensare un’idea di libertà diversa dal modello liberale e un’idea di identità diversa da quella che si rifugia nei riferimenti escludenti e omologanti.
L’autore: Animatore dell’associazione Maschile plurale, Stefano Ciccone fa parte del gruppo dirigente di Sinistra italiana ed è docente dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Nella foto di Renato Ferrantini, manifestazione contro la violenza sulle donne, Roma, 25 novembre 2024