Venti morti. È  la quota di vite civili che l'esercito israeliano prevede per eliminare un solo miliziano di Hamas. Così recita un ordine segreto impartito agli ufficiali israeliani e svelato da un'inchiesta del New York Times

Ci sono storie che non vogliamo sentire, verità che ci disturbano, ma che restano lì, pronte a gettare una luce impietosa sulla nostra esistenza. Una di queste arriva dalle pagine del New York Times, che ha rivelato una vicenda dai contorni inquietanti: nei primi mesi dell’assalto a Gaza l’esercito israeliano ha abbassato la soglia di tolleranza per le vittime civili, perseguendo obiettivi militari a ogni costo.

Venti morti. Un asterisco sanguinante ai margini della storia. Venti morti. È  la quota di vite civili che si poteva sacrificare per eliminare un solo combattente di Hamas. Così recitava un ordine segreto impartito agli ufficiali israeliani, un decreto che puzza di morte. Venti civili per uno. Un calcolo freddo, una agghiacciante matematica del sangue.

“Harbu darbu”, si diceva tra le file dei militari. Un’espressione mutuata dall’arabo, che significa attaccare senza ritegno, senza risparmio, senza pietà. Le regole, quei confini fragili che in teoria distinguono una guerra da una mattanza, sono state sventrate da una logica spietata: la minaccia esistenziale. Era il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco dei miliziani di Hamas, quando il comando militare israeliano ha cambiato registro, giustificando il cambio di regole con una ragione apparentemente inoppugnabile: la sopravvivenza stessa dello Stato di Israele.

Da quel momento, la Striscia di Gaza è diventata una scacchiera su cui muovere i pezzi senza pietà. Ogni edificio, ogni vita, una pedina da sacrificare sull’altare della guerra. Un teatro di orrore dove l’unica regola è colpire, colpire ancora. Quasi 30.000 munizioni sono state sganciate nei primi due mesi, più di quante se ne verranno usate nei successivi otto mesi messi insieme. Ogni bomba, una lacrima di fuoco che brucia vite indifese. Un’equazione amara dove la precisione militare incontra l’imprevedibilità della sorte. E gli innocenti pagano il prezzo più alto.

Cinque ufficiali superiori hanno descritto lo spirito prevalente con la stessa frase: “harbu darbu”. Due parole che condensano la logica brutale di questa guerra, dove la distruzione più che un mezzo rappresenta un fine. Mentre Gaza moriva a piccole dosi, i comandi militari continuavano a iniettare veleno nelle sue vene, approvando attacchi che mettevano in pericolo centinaia di civili al giorno, autorizzando bombardamenti con un potenziale devastante mai visto prima in un esercito occidentale contemporaneo.

In questa guerra sporca, la tecnologia è l’ultimo carnefice, un assassino invisibile che opera dietro le quinte, rendendo la morte ancora più fredda e calcolata. Un sistema di intelligenza artificiale, ribattezzato Lavender, è stato utilizzato per individuare nuovi obiettivi. Un’innovazione tecnologica che, però, ha mostrato tutti i suoi limiti. I calcoli si basavano su modelli statistici e su dati frammentari, come il traffico di cellulari in un’area, piuttosto che su un’osservazione puntuale e approfondita. È un po’ come decidere di abbattere un intero edificio solo perché ci sono luci accese in un appartamento.

E quando gli attacchi erano diretti a leader di Hamas particolarmente importanti, il prezzo saliva, infatti, fino a 100 civili potevano essere considerati sacrificabili. Uno degli episodi più evidenti riguarda l’uccisione di Ibrahim Biari, comandante di Hamas, in un raid che, secondo l’osservatorio Airwars, ha causato almeno 125 morti civili.

Le vite di chi è rimasto intrappolato in questo calcolo crudele spesso non trovano spazio nei rapporti ufficiali. Un padre, una madre, un bambino che dormiva nella stanza accanto diventano statistiche, numeri che si dissolvono tra i dati delle operazioni militari. Il NYTimes ha scoperto che l’esercito israeliano ha ridotto drasticamente l’uso dei cosiddetti “roof knocks”, quegli avvertimenti che permettevano ai civili di mettersi in salvo prima di un attacco. Al loro posto, bombe da una tonnellata hanno raso al suolo interi palazzi, cancellato quartieri, trasformando una città in un cimitero a cielo aperto. Un’apocalisse annunciata, dove l’uomo ha dimostrato, ancora una volta, di essere più bravo a distruggere che a costruire.

Questa non è solo una storia di bombe, numeri e strategie militari. È la cronaca di un massacro, la storia di un’umanità gettata al macello, di vite sacrificate sull’altare di interessi più grandi. Un sistema che macina uomini come carne da cannone. È la denuncia di una logica che, in nome della sicurezza, sembra dimenticare che la sicurezza vera non può essere costruita sul sangue degli innocenti.

Il report del New York Times offre uno sguardo inedito su una delle guerre più letali del nostro tempo, ma non basta. Dietro le fredde righe dell’inchiesta ci sono storie di violenza e di sopraffazione. C’è una responsabilità collettiva, un’eredità di dolore che dobbiamo affrontare. La Striscia di Gaza, oggi, è uno specchio che ci costringe a guardare cosa siamo diventati quando smettiamo di chiederci cosa valga davvero una vita umana.

 

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce