Viktor Orbán si è messo nei guai. Guai molto costosi. Guai seri. Il leader continentale del sovranismo, faccia contemporanea del nazionalismo, ha perso oltre un miliardo di euro di fondi europei, cancellati dalla Commissione di Bruxelles.
È una prima volta. Mai un Paese dell’Unione aveva perso fondi in modo definitivo a causa del proprio disprezzo per le regole democratiche. Eppure, l’autocrate ungherese era più che avvertito. Era il 2022 quando l’Ungheria era stata messa in mora dall’Unione per sistematiche e ripetute violazioni dello Stato di diritto e per corruzione. Ora, è arrivata la punizione che non si limita a quel solo miliardo. I fondi per la coesione Ue che Budapest rischia di non ricevere più ammontano, nel complesso, a circa 7 miliardi e mezzo di euro.
Le regole sono regole. E, in pratica, i fondi Ue hanno un legame preciso, in base al Regolamento sulla condizionalità, con il rispetto dello Stato di diritto. E Budapest era obbligata a riparare alla subordinazione al Governo di diverse Istituzioni pubbliche, limitate nelle proprie libertà, entro il 16 di dicembre.
Orbán non ha ottemperato. Le riforme che ha proposto, in particolare per migliorare l’indipendenza del sistema giudiziario e la trasparenza negli appalti pubblici, non sono state ritenute sufficienti dalla Commissione.
E, ora, gli ungheresi pagheranno l’ostinazione del loro primo ministro. Eppure, l’Europa aveva fatto molto bene all’Ungheria. I fondi europei hanno dato un grande contribuito alla sua crescita economica, sostenendo l’aumento del Pil pro-capite, dell’occupazione e degli altri indicatori economici.
Ça va sans dire, persi i fondi, Orbán ha incassato la solidarietà sovranista della Lega. Ma la lezione è importante per tutti. Il sovranismo, forma “aggiornata”, come accenavamo sopra, del nazionalismo, è uno dei mali che più mettono a rischio non solo la costruzione dell’Unione: il pericolo riguarda tutti i Paesi che ne fanno parte. La rivendicazione della sovranità nazionale contrapposta alle dinamiche della unità politica dell’Europa e alle politiche sovranazionali, rende i Paesi più deboli, anziché più forti. Proprio nelle complesse dinamiche di una globalizzazione ormai fuori controllo e nell’attesa, con l’insediamento di Trump, di leggere gli effetti della Maganomics (Make America Great Again) che della globalizzazione vuole riavvolgere il nastro, un’Europa delle “piccole patrie” tanto cara alla destra, perdendo di solidarietà e coesione, diverrebbe definitivamente inerme.
Il processo di integrazione, di costruzione di un grande mercato interno e di uno sviluppo comune, deve avanzare. È, più che mai, l’ora del coraggio politico. E si dovrebbe partire da quanto da molti auspicato e definito dalle parole che Mario Draghi rivolse al Parlamento europeo già tempo fa: «dobbiamo superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata. Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è un’Europa più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo».
Ancor più di fronte a quel disprezzo per lo Stato di diritto che alcuni, beffardamente, chiamano “sovranità”, salvo poi esigere di ricevere i fondi messi in comune da chi rispetta i doveri della democrazia. È ora di dare all’Europa regole più intransigenti quanto efficienti nella presa delle decisioni. I furbi devono perdere il potere di ricatto.
Il fermaglio di Cesare Damiano. L’autore: sindacalista, già ministro del Lavoro, è presidente di Lavoro e Welfare
In foto Orban con Putin, foto di Kremlin.ru, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31065314