«Hanno tolto l’ergastolo a lui per darlo a noi». Conviene partire dalle parole di Elena, sorella di Gabriela Trandafir e zia di Renata, uccise a fucilate da Salvatore Montefusco per comprendere lo sdegno di fronte alla sentenza dei giudici di Modena che la senatrice del Pd Valeria Valente definisce un provvedimento da ‘manuale del patriarcato’.
La Corte di Assise ha condannato il femminicida a 30 anni, e non all’ergastolo, in ragione della “comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto di reato”. “Arrivato incensurato a 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate”, scrivono i giudici. Insomma, c’è un comprensibile motivo, anche se non buono, per uccidere la moglie e sua figlia.
L’imputato provava – dicono i giudici – “disagio, umiliazione ed enorme frustrazione” e quando la moglie gli ha detto che avrebbe dovuto lasciare la casa avrebbe avuto un “black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma”.
C’è nero su bianco tutto l’armamentario delle giustificazioni che la cattiva stampa e i maschi assassini usano per lenire la gravità culturale dei femminicidi. Se è umanamente comprensibile ammazzare a fucilate una moglie e sua figlia, a questo punto, possiamo anche stracciare le conferenze, i libri, le panchine e le commissioni parlamentari sul femminicidio.
Che ci sia sempre un comprensibile motivo per concimare il patriarcato è da secoli la sua forza. Ora è anche sentenza.
Buon martedì.
Una foto di Gabriela Trandafir, 47 anni, con la figlia, Renata, 22