Dietro lo show dei migranti con le fascette ai polsi, il fallimento del governo Meloni

Le fascette ai polsi valgono più delle sentenze. Sono il manifesto da campagna elettorale permanente, il trofeo agitato contro le telecamere per dimostrare che “la pacchia è finita”. I migranti trasferiti in Albania legati come pacchi, esibiti come criminali, sono il prezzo pagato per un racconto che ha bisogno di cattivi da punire più che di soluzioni da costruire. Piantedosi rivendica. Salvini sghignazza. E nel frattempo, come ha denunciato Cecilia Strada, quei trasferimenti sono avvenuti senza alcuna informativa, con le fascette strette anche durante i pasti e per andare in bagno.

Dietro lo show, il fallimento: un protocollo da un miliardo di euro, che moltiplica i costi per ogni trasferimento e obbliga al ritorno in Italia prima di ogni rimpatrio. Una macchina assurda che somiglia più a un baraccone itinerante che a una politica migratoria. Ma funziona, perché mette in scena la cattiveria come virtù e la forza come propaganda.

Intanto, i numeri smentiscono l’allarme: il Viminale certifica il 28% in meno di sbarchi rispetto all’anno scorso. Eppure l’emergenza resta, perché serve. Serve a coprire i tagli, a distrarre dai fallimenti, a fare l’ammuina. Si cambia la destinazione, non la logica. Il Cpr albanese è solo il remake fuori confine dei lager amministrativi italiani.

In questa rappresentazione, la disumanizzazione diventa linguaggio di governo. Chi arriva in Italia viene trattato come rifiuto speciale, chi contesta viene accusato di debolezza. E intanto un’intera democrazia si abitua al filo spinato come ornamento istituzionale. Fino alla prossima foto. Fino alla prossima umiliazione da sbandierare come vittoria.

Buon lunedì.

Foto WMC