Ricercatori, operatori sociali, insegnanti, lavoratori dei beni culturali sono le prime vittime della precarizzazione sistematica del lavoro e del lavoro povero. Ecco come si stanno organizzando per rivendicare diritti, tutele e dignità

La precarietà sembra essere diventata parte strutturale del mondo lavorativo. E in Italia, come è emerso anche in occasione del referendum di giugno, ci sono diverse categorie di lavoratori che si sono organizzate per rivendicare maggiori tutele lavorative e garanzie contrattuali. Ognuno di questi gruppi fa i conti con le proprie specificità e rivendicazioni, seppur muovendosi all’interno di un mercato che segue una tendenza costante in tutto il Paese. Nel contesto italiano, il Pil per abitante ad oggi è di 31.000 euro l’anno, poco più alto rispetto al 2000.

Dal rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo) emerge che la perdita del salario reale è dell’8,7% rispetto al 2008, dato che fa dell’Italia il Paese con l’andamento peggiore nei G20. Inoltre, come riporta una ricerca svolta dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, ormai i contratti part-time e a termine riguardano quasi il 30% delle persone occupate, mentre gli occupati “standard”, con contratto full-time indeterminato, sono diminuiti dal 78% al 72% negli ultimi venti anni. Salari bassi e contratti a scadenza sono due dei molti aspetti affrontati durante le mobilitazioni di ricercatori, operatori sociali e lavoratori del mondo dei beni culturali negli ultimi anni. Specie in seguito all’introduzione del Jobs act.

Venendo a tempi più recenti, nel mondo della ricerca l’annuncio della “riforma Bernini” ha spinto molti giovani ad organizzare forme di resistenza sindacale nelle diverse città universitarie d’Italia, e in molti atenei sono nate le Assemblee precarie universitarie (Apu). Dopo il lieve miglioramento vissuto nel 2022, con l’introduzione

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