Il giovane israeliano racconta la propria scelta nonviolenta contro il militarismo e l’occupazione, denunciando lo sterminio di civili in corso a Gaza perpetrato con l’appoggio delle potenze occidentali

Da bambino sapevo che un giorno avrei imbracciato un’arma. È il destino di ogni israeliano, ci viene insegnato fin da piccoli. Poi crescendo qualcosa si è rotto. Ho detto: no, non posso essere complice». Yuval Dag è un ragazzo israeliano di 22 anni, attivista di Mesarvot, una rete israeliana che offre supporto legale, tutoraggio e gestione mediatica a giovani che scelgono l’obiezione di coscienza. Il suo rifiuto ad arruolarsi gli è costato 70 giorni di carcere ed isolamento sociale. Il mese scorso ha attraversato l’Italia all’interno di un “tour nonviolento” organizzato dalle Donne in Nero. A supportare Yuval Dag anche il Refuser Solidarity Network, una rete israeliana costruita da obiettori di coscienza il cui motto è «ending the occupation, one soldier at a time». Partiamo dall’inizio. Dag, lei è cresciuto e si è formato in Israele. La mia famiglia fa parte di un moshav, cioè una comunità agricola, nel sud di Israele. Ognuno aveva il suo bestiame, tutti un pezzetto di terra. Sono cresciuto come un sionista, con l’idea di espandere e proteggere Israele.

Yuval Dag

Quando dice “come un sionista” cosa intende?

Fin da bambini ci hanno insegnato che il nostro popolo era minacciato, che dovevamo proteggerci e che per farlo eravamo autorizzati ad usare anche la forza. Questo perché Israele era sempre nel giusto. Il concetto di sicurezza è sempre stato al centro della nostra educazione.

Come veniva spiegato a voi bambini il concetto di sicurezza secondo Israele?

Ricordo che una volta all’anno la comunità si ritrovava per onorare i militari del nostro villaggio impegnati in operazioni militari, ci mostravano le loro foto in uniforme e mentre imbracciavano fucili. Dovevamo a

Questo articolo è riservato agli abbonati

Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login