Trascinarono Ahmad. Allah ti protegga, pensò Loai. I soldati si guardarono soddisfatti, avevano appena avuto la conferma che cercavano: era proprio quello il fidai’i a cui stavano dando la caccia. Perché un fidai’i che consegna a qualcuno la propria kefiah è come un re che consegna ai propri sudditi la corona, come uno scrittore che consegna ai lettori il calamo, come un marinaio che consegna agli avi la propria barca. Era lui il fidai’i e aveva appena consegnato la sua kefiah ai posteri».
È un passaggio chiave de Il ragazzo con la kefiah arancione (Ponte alle grazie) di Alae Al Said, scrittrice nata a Roma di origini palestinesi. Chiave perché ci parla del passaggio di un testimone, dalla vita alla morte, dalla certezza all’oblio, dal terrestre all’eterno.
La parola fidai’i traduce “combattente per la libertà, partigiano”, e il suo plurale, più noto da noi, è fidayyin. Ma questo romanzo non è affatto, ovvero, non è soltanto la storia di chi fa guerriglia. Non è, o non è solo un romanzo di guerra. È, invece, una grande storia di amicizia e di affetto, ambientata in scenari che di rado hanno, negli ultimi decenni, visto la pace.
La storia, raccontata in gran parte in flashback, è quella che narra Loai Qasrawi a un giornalista americano il quale, si scoprirà poi, ha legami importanti proprio col suo passato. Legami di cui, però, al momento dell’incontro tra i due, nessuno è ancora consapevole.
Siamo a Hebron nei primi anni Sessanta. Loai è un giovane intelligente, sensibile e dotato di una memoria vivace, figlio prediletto di una famiglia benestante produttrice di kefiah. Ha i capelli arancioni, e questa caratteristica inusuale lo fa cadere vittima di pesanti atti di bullismo. Loai diventa il bersaglio preferito di tre compagni crudeli a scuola. Avrà, però, un amico Ahmad, povero e solo, un ragazzo abituato alla vita di strada. Della loro amicizia la famiglia di Loai non è affatto entusiasta. Loai viene spedito lontano, a Nablus. Qui, durante il suo percorso di crescita, troverà nella cultura, nella politica (tra cui l’attivismo giovanile legato all’Olp e ad Arafat) e nello studio, una nuova strada di riscatto.
Loai e Ahmad si incontreranno di nuovo dopo qualche anno, a Hebron, ma lo scenario ora è quello della Guerra dei Sei Giorni e della brutale occupazione israeliana. Prima di essere arrestato come sovversivo, l’abbiamo letto, Ahmad consegnerà a Loai la Kefiah arancione simbolo della sua personale resistenza.
La kefiah, legame con le radici e simbolo di un’intera generazione, assumerà per lui significati sempre più stratificati: sarà memoria ma anche vessillo. Sarà bandiera.
Questo romanzo importante, attraverso la parola profonda della letteratura, punta i fari su vicende di grande umanità che vengono spesso relegate ai margini delle narrazioni contemporanee. Il che vale soprattutto in tempi recenti nei quali il massacro dei palestinesi sembra passare sempre in secondo piano, per via di interessi economici e geopolitici nell’inseguimento dei quali anche chi si crede assolto sarà per sempre coinvolto.
È una storia collettiva e personale che parla di identità e di accettazione del sé e delle proprie diversità, con riferimenti al bullismo e alle violenze in ambienti scolastici. È però anche il racconto di una tradizione, quella palestinese, fatta di memoria e di resistenza. Una tradizione simboleggiata, nel testo, da un indumento che ha assunto un valore transnazionale: la kefiah, oggi prodotta principalmente in Cina, malgrado l’unica fabbrica palestinese ancora in attività a cui il romanzo rende a suo modo omaggio.
È quindi al contempo una storia di occupazione, di resistenza e di martirio, e una vicenda dai contorni familiari. Importantissimo risulta, infatti, il ruolo della madre di Loai, Randa, che lo aiuta ad accettarsi, inizialmente. Lo stesso vale per la professoressa, Halima, che sebbene giovane e inesperta, sa reagire con fermezza alle ingiustizie subite dal ragazzo. Il ragazzo con la kefiah arancione è, però, principalmente la storia di un sentimento universale che sopravvive a tutto, alla violenza come anche alla morte. Tutti questi temi hanno, nel romanzo, un radicamento negli oggetti e nelle persone, quasi a indicare una simbiosi tra animato e inanimato, tra superficie e simbolo profondo.
È una simbiosi di resistenza, fatta di parole ma anche di fatti. Il che capita spesso nella letteratura palestinese dei nostri giorni, quella di Gaza soprattutto, che vede tanti giovani testimoniare, anche soltanto con qualche frammento di verso, la propria volontà di vivere, di resistere, e di riesistere. Importante in questo romanzo è la non autoreferenzialità, tratto tipico di una letteratura che non può essere ricondotta a semplici formule. La Palestina di cui si parla non è quella di oggi, bersaglio di brutali bombardamenti giornalieri e di una pulizia etnica che soltanto chi non vuol vedere ha il coraggio di negare. È la Palestina del passato, del radicarsi dell’occupazione illegale israeliana, e della repressione capillare del dissenso.
Ma il passato di questa terra, i suoi trascorsi di cui leggiamo nel romanzo, altro non sono se non uno specchio in grado di riflettere e di farci riflettere sul presente: sull’isolamento di una popolazione soggetta ad apartheid da un governo e un esercito terroristi, sul silenzio complice dell’occidente e di un’Europa che, con eccezioni illustri quali l’Irlanda, non si vuole sporcare le mani e che prosegue con la sua retorica stantia, proponendo soluzioni ideali al conflitto, difficilmente realizzabili allo stato delle cose. Soprattutto, la parola letteraria di Alae Al Said e la storia di ieri e di oggi che racconta, sono un monito contro la creazione di stereotipi consolatori. Come l’autrice stessa ha più volte affermato, la questione coloniale e quella religiosa vanno di pari passo in Palestina, e non si può capire l’una se non si capisce l’altra. L’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura non è negoziabile, per un popolo abituato a resistere e intenzionato a farlo negli anni e nei decenni a venire.
Questa singolarità palestinese, non compresa o relegata al silenzio dai grandi media, dalla politica internazionale e dalla falsa coscienza, vive per farci vivere, per ricordarci che la storia non si cambia, non si vende al miglior offerente. Di questo rapporto con l’esterno, ossia con il fuori della vicenda palestinese, è quasi involontariamente testimone e protagonista, nel libro, il giornalista americano, interessato sì alla storia materiale della produzione di kefiah nel paese, ma anche al suo valore simbolico, collettivo e personale.
La sua funzione è quella di ascoltare, anche un’intera notte, pronto a scrivere «fino a domani mattina, anche un intero libro». È però, egli, pure un ponte tra mondi: tra chi ha vissuto la sofferenza e chi può raccontarla. In ciò, diviene infine il simbolo dei tanti giornalisti a cui oggi la voce viene negata dalle autorità israeliane, divenendo spesso bersaglio di brutali uccisioni mirate.
Il giornalista è, nel romanzo, un testimone occidentale, e quindi è in un certo senso anche tutti noi. Noi se siamo pronti ad ascoltare, noi se abbiamo davvero la voglia di aprire gli occhi e vedere.
Il vescovo Romero, assassinato da sicari delle squadracce fasciste a El Salvador, una volta disse: «Gli occhi che hanno pianto sono in grado di vedere tante più cose». I palestinesi piangono e continuano a piangere, e per questo vedono e continuano a vedere di più. Il romanzo di Alae Al Said ci invita a piangere per poter vedere di più. Per vedere, un giorno, anche la bandiera della libertà sventolare sulla terra del massacro. Come la bandiera piantata, alla fine del libro, nel luogo in cui per sempre ricorderemo Loai: «L’asta si piantò in quel terreno dorato come se non avesse aspettato altro. E la bandiera cominciò a sventolare mossa dalla brezza che soffiava su quella luna.
Una luna più luminosa, più bella, cento, mille volte rispetto a quella appesa nel primo cielo della vita terrena. Nessuna città della Palestina poté vedere il trionfo che accadeva in cielo, la bandiera che ondeggiava alta, orgogliosa».
L’autore: Enrico Terrinoni è accademico, traduttore e saggista. Professore ordinario di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, ha pubblicato, tra gli altri, James Joyce e la fine del romanzo (Carocci) e Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma (Feltrinelli)
L’8 luglio Il ragazzo con la kefiah arancione (Ponte alle grazie) viene presentato nella biblioteca comunale di Trani, come anteprima dei Dialoghi di Trani