Isaac Herzog è uscito dal Vaticano raccontando un incontro «caloroso». La Sala Stampa ha parlato di «tragica situazione» e di «futuro per il popolo palestinese», con i soliti capitoli: cessate il fuoco, aiuti umanitari, due Stati, ostaggi. Ma qui sta la frattura: mentre il presidente israeliano colleziona foto di normalità diplomatica, il lessico ufficiale della Santa Sede scivola verso un neutralismo che non nomina mai ciò che va nominato. Nessuna parola su genocidio, pulizia etnica, apartheid, uso sistematico della fame; nessun riferimento ai migliaia di palestinesi detenuti senza accuse. La grammatica della cautela diventa, di fatto, un’amnistia semantica.
Herzog non è un ospite neutrale. Nell’ottobre 2023 disse che «un’intera nazione» a Gaza è responsabile: una frase diventata prova di retorica disumanizzante nelle carte internazionali. Ha firmato un proiettile diretto a Gaza, ha sostenuto politicamente l’assedio che ha demolito ospedali e scuole. La stretta di mano, in questo quadro, non è gesto di pace: è un credito simbolico concesso a chi ha coperture e complicità nella punizione collettiva.
La diplomazia ha un limite: quando la prudenza lessicale cancella le vittime. Il Vaticano può rivendicare equidistanza tra comunicati, ma l’equidistanza tra occupante e occupato non regge alla prova dei fatti. Se il pontefice chiede il rispetto del diritto umanitario, allora l’udienza deve diventare atto di verità: nominare i crimini, pretendere responsabilità, indicare condizioni concrete (cessazione dei bombardamenti, fine dell’assedio, liberazione dei prigionieri politici oltre che degli ostaggi). Altrimenti l’abbraccio resta una fotografia riuscita per Herzog e un’occasione persa per la Chiesa: non un ponte, ma un silenzio che pesa.
Buon venerdì.




