L’attivista palestinese racconta l’installazione di un nuovo check point a Tuwani, nuovo tassello della strategia israeliana di isolamento e pulizia etnica nei villaggi delle colline a sud di Hebron

L’autorità israeliana isola Tuwani, il villaggio al centro del documentario Premio Oscar 2025 No other land. Ora per accedere a Masafer Yatta bisognerà attraversare un nuovo check point, illegale come tutta l’occupazione. Ad assistere a questo sopruso è l’attivista Hesham Huraini.

“In questo momento a Masafer Yatta, le forze di occupazione stanno installando cancelli militari all’ingresso dei nostri villaggi, tra Tuwani. Dove abito. Non è solo un pezzo di metallo, è uno strumento per controllare i nostri movimenti, isolarci da scuole, ospedali e creare distanza tra i cittadini palestinesi”. A raccontarci l’attuazione del piano di colonizzazione israeliana nei Territori Palestinesi Occupati è Mohammad Hesham Huraini: ha 22 anni ed è un attivista di Masafer Yatta, la regione delle colline a sud di Hebron. In Cisgiordania. Lo fa mentre l’autorità di occupazione israeliana, scortata dall’esercito, sta posizionando un enorme sbarra mobile all’ingresso di Tuwani (mercoledì 3 settembre, ndr). Se il nome del villaggio vi è famigliare è perché qui si ambienta buona parte del documentario Premio Oscar 2025 “No Other Land”. Un riconoscimento che Israele non ha particolarmente gradito, riversando ancora più odio su questo lembo di terra composto da circa 12 villaggi palestinesi intenti a resistere alla pulizia etnica israeliana. “Sono cresciuto qui, in una comunità che ha vissuto sotto la costante pressione dell’occupazione illegale israeliana. Tutti i giorni della mia vita”.

Huraini, cosa sta succedendo ora nel suo villaggio?

“Hanno appena installato una barriera mobile all’ingresso di Tuwani, sull’unica strada che ci connette con il resto della Cisgiordania. Vogliono isolarci, rendere la vita insopportabile e spingerci ad abbandonare la nostra terra. Questa non è la prima barriera ma è la più impattante. Questi cancelli sono disseminati in tutta la Cisgiordania e creano ostacoli che possono trasformare un banale viaggio in auto di quindici minuti in un’impresa impossibile. Le nostre strade vengono appositamente devastate dai mezzi pesanti israeliani e grossi massi vengono piazzati sul nostro cammino per bloccare gli spostamenti. Ovviamente questo è un trattamento specifico per noi palestinesi”.

Di fatto si tratta di un check Point israeliano permanente, quella è la porta di Masafer Yatta.

“Vedremo nei prossimi giorni come verrà utilizzato ma sarà l’esercito israeliano a decidere quando chiudere la strada, quando far entrare gli insegnanti per le lezioni a scuola, se autorizzare l’ingresso di un’ambulanza e se lasciare gli internazionali liberi di muoversi dentro e fuori Tuwani”.

Come sta vivendo questo acuirsi della violenza israeliana nei vostri villaggi?

“Come attivista la mia vita è profondamente legata alla resistenza, lottiamo contri i tentativi di espellerci dalla nostra terra. Nello specifico mi occupo di documentare gli attacchi di esercito e coloni, sostengo le famiglie che subiscono l’occupazione, lavoro con palestinesi e amici internazionali per proteggere i nostri villaggi. Sapete, non è una vita facile. Ma è radicata nella dignità e nell’amore per la nostra casa. Nella ricerca della libertà”.

Come tanti giovani attivisti ha scelto la strada della nonviolenza, in un contesto in cui la violenza israeliana è prassi quotidiana rivolta ai palestinesi. Come mai?

“Per me, resistenza nonviolenta significa rifiutarsi di arrendersi nonostante i loro continui soprusi. Significa rimanere saldi, coltivare la nostra terra anche quando viene distrutta dai coloni, riparare le case quando l’autorità israeliana ci sguinzaglia bulldozer, documentare gli abusi commessi verso le nostre famiglie e i nostri bambini. Far sentire la nostra voce al mondo. È un modo per dimostrare che la nostra umanità e il nostro diritto a vivere qui non possono essere schiacciati dalle loro armi, dall’apartheid o dalle intimidazioni”.

Quindi sta vivendo a pieno l’ingiustizia e la sopraffazione israeliana.

“Ho affrontato molte difficoltà con coloni e soldati: incursioni notturne, arresti, percosse, distruzione dei nostri raccolti, furto del nostro bestiame, demolizioni di case, scuole e cisterne d’acqua. Ho visto bambini piangere di paura, famiglie aggredite, auto distrutte. Questi momenti sono dolorosi, però mi infondono più forza per resistere”.

Che tipo di supporto si aspetta da un Paese come l’Italia?

“Dall’Italia e da qualsiasi parte del mondo le persone possono sostenerci sensibilizzando l’opinione pubblica, facendo pressione sui governi affinché smettano di sostenere l’apartheid israeliana, aderendo alle campagne di boicottaggio e disinvestimento. Potete venire nei nostri villaggi, qui a Masafer Yatta, e toccare con mano l’occupazione israeliana, schierarvi al nostro fianco. La vostra solidarietà rompe il silenzio”.

Come definirebbe l’occupazione israeliana?

L’occupazione influenza ogni aspetto della mia vita e di quella della mia famiglia. Dalla possibilità di raggiungere la scuola o il lavoro ma nega anche il diritto alle cure. Di giorno siamo bersaglio e di notte ruba il sonno impedendoci di dormire. L’occupazione cerca di impossessarsi non solo della nostra terra ma di sottrarre anche la normalità alle nostre vite. Annullando progetti, speranze e relazioni. Non è solo un cancello metallico ma una rete di violenza che vuole controllare ogni cosa. L’occupazione la respiriamo, ci riempi i polmoni. Ma nel cuore abbiamo la resistenza. Siamo qui e resistiamo”.

L’autore: Cosimo Pederzoli – Antropologo, attivista campagna SaveMasaferYatta