Ci ho pensato molto ma continua a sfuggirmi il motivo per cui, ciclicamente, qualcuno del governo si inerpichi in risibili pose di protezionismo che passano piuttosto inosservate. Qualche giorno fa il ministro dei beni culturali Dario Franceschini in un’intervista a La Stampa dall’inequivocabile titolo «Franceschini: “Obbligheremo Netflix a dare più visibilità a serie e film italiani”» in cui dice che “Netflix avrà quote di programmazione e obblighi di investimento come le tv tradizionali. Stiamo lavorando su diverse ipotesi per costringere anche tutte le piattaforme online a valorizzare prodotti italiani, su home page, menu, banner”.
Ed è in fondo sempre la vecchia storia per cui la provenienza di un prodotto (in questo caso cinematografico, ma vale in qualsiasi campo) debba essere di per sé una garanzia di qualità o, almeno, un ovvio motivo di interesse. È la scorciatoia di chi pensa davvero che il problema del cinema italiano sia una naturale avversione dei distributori e dei media (che il complotto va di moda, di questi tempi) e non un banale problema di qualità.
Forse sarebbe il caso che qualcuno dica a Franceschini che sono pochi i “sovranisti culturali” che vogliano vedere “film italiani” rispetto a quelli che semplicemente vorrebbero godersi un “bel film”.
Buon martedì.