«È un messaggio di continuazione dell’impegno. I risultati ottenuti sono stati basati su uno stretto raccordo e una concertazione quasi quotidiana tra le istituzioni, il governo italiano, l’ambasciata, la Procura di Roma – che ha fatto un lavoro straordinario – e la Procura del Cairo e su questa strada dobbiamo continuare per avere la verità sulla brutale esecuzione di Giulio»: aveva detto così lo scorso 24 gennaio Giampaolo Cantini quando si era ritrovato (povero lui) a fingere di commemorare i due anni dalla scomparsa di Giulio Regeni da ambasciatore italiano in Egitto.
Ci hanno detto che il ritorno dell’ambasciatore italiano in terra d’Egitto sarebbe servito per “trovare la verità” e invece, sei mesi dopo, registriamo la saldatura dei ghiotti rapporti commerciali (la scenetta dell’amministratore dell’Eni De Scalzi insieme a Al Sisi è una di quelle notizie che dovrebbe sanguinare e invece niente) ma nessun concreto passo in avanti sulla morte di Giulio Regeni.
Lo dice senza troppi giri di parole la famiglia di Giulio: «Non è stata registrata in realtà nessuna ‘reazione’ da parte della magistratura egiziana sulla informativa italiana che ricostruisce le precise responsabilità di nove funzionari di pubblica sicurezza egiziani perfettamente individuati. Sono passati, da quel 14 agosto, altri sei mesi». «Se, come ci era stato garantito dal nostro Governo – dice la famiglia Regeni – l’invio dell’ambasciatore, doveva consentire il raggiungimento della verità processuale su “tutto il male del mondo” inferto su nostro figlio, il fine evidentemente non è stato raggiunto e la missione in questo senso è fallita. Non è possibile normalizzare i rapporti con uno stato che tortura, uccide e nasconde oltraggiosamente la verità, se non a scapito della credibilità politica del nostro Paese e di chi lo rappresenta».
Missione fallita. Giulio è morto. Questi sperano che il ricordo e la fame di giustizia si spenga. E invece no, non si spegne.
Buon mercoledì.