A fine gennaio scorso, a oltre 20 anni dalla nascita della pecora Dolly, l’Istituto di neuro-scienze di Shanghai ha reso noto d’aver clonato Zhong Zhong e Hua Hua, le prime scimmie create con la stessa tecnica usata per l’ovino britannico. Secondo il New Scientist i due macachi dovrebbero rendere possibile la creazione di popolazioni di scimmie personalizzabili e geneticamente uniformi per accelerare la ricerca per curare il morbo di Parkinson, l’Alzheimer e il cancro. Questa nuova tecnica consentirà agli scienziati di modificare i geni dei primati clonati per monitorare come questi alterano la biologia degli animali e confrontarla poi con esseri geneticamente identici tranne che per le alterazioni. Nel 2000 erano state clonate altre scimmiette ma con una tecnica che divideva un embrione dopo che questo era stato fertilizzato producendo quindi solo un gemello geneticamente identico.
Secondo quanto sviluppato dal dottor Qiang Sun dell’Accademia cinese delle scienze di Shanghai, l’ottimizzazione della tecnica utilizzata per Qiang Sunpotrà rendere possibile produrre un numero teoricamente illimitato di cloni.
Ancora prima del merito dei suoi risultati, la scienza necessita attenzione critica per la velocità con cui produce cambiamenti. La ricerca, la clonazione riproduttiva o terapeutica, gli interventi sul genoma umano, animale o vegetale, gli investimenti attorno a tutto quello che chiamiamo intelligenza artificiale e la gestione dell’enorme mole di dati che tutto ciò produce richiedono un quadro normativo chiaro, puntuale, condiviso globalmente, conoscibile, la cui applicazione ed efficacia siano monitorabili. In caso di limitazioni, o patenti violazioni, dei diritti fondamentali o dello Stato di diritto internazionale, tanto la ricerca quanto il suo prodotto devono poter esser messe in dubbio, modificate e controllate affinché non creino discriminazioni e disuguaglianze. Non si tratta di proibire arbitrariamente, bensì di governare fenomeni di portata epocale sulla base delle norme codificate dalla Comunità Internazionale dal secondo dopoguerra a oggi.
Negli ultimi 25 anni, la Repubblica popolare cinese ha dedicato ingenti risorse umane e finanziarie affinché i dipartimenti di ricerca scientifica e ingegneria delle proprie università arrivassero a competere con quelli americani ed europei. Nello stesso periodo Pechino, molto spesso grazie proprio alle innovazioni tecnologiche che ha copiato o prodotto in casa propria, ha rafforzato un sistema autoritario che ha limitato fortemente il dissenso, creato un’identità nazionale forte e promosso un nazionalismo e suprematismo razziale anche al proprio interno che controlla chiunque non ne faccia parte geneticamente o culturalmente. Se all’inizio degli anni Novanta il miglior centro di ricerca cinese era all’altezza di un medio dipartimento in Occidente che studiava le stesse materie, oggi Shanghai e Pechino hanno creato poli di eccellenza che ancora (forse) non attraggono presenze internazionali di rilievo ma che sicuramente offrono prospettive certe per scienziati, ingegneri e fisici cinesi che si son specializzati altrove.
Un progresso scientifico promosso al netto della libertà individuale o della salute e benessere pubblici può consolidare tecnocrazie che stabiliscono cosa possa o non possa esser fatto senza alcuna possibilità di appello da parte di chi ne subisce le conseguenze – anche se queste apparentemente sono tutte di segno positivo. Per evitare che la scienza divenga il più potente alleato dell’autoritarismo, occorre che gli strumenti internazionali sui diritti umani vengano applicati alle nuove frontiere della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche. Le decine di trattati, convenzioni, patti e documenti che contengono gli elementi che qualificano i diritti individuali e collettivi stabiliscono precisi obblighi per i Paesi che incorporano queste norme universali nei loro sistemi nazionali. Dall’Afghanistan allo Zimbabwe, passando per le nostre belle e ricche democrazie occidentali, i governi nazionali son tenuti ad adottare leggi che rispettino quanto contenuto nei documenti internazionali che hanno ratificato. Tra i vari diritti previsti a livello globale ve n’è uno che dobbiamo iniziare a chiamare con il suo nome: “diritto alla scienza”: dalla libertà per i ricercatori di far il proprio lavoro al diritto di tutti di poter beneficiare del frutto delle ultime scoperte scientifiche, questo diritto alla scienza deve rientrare tra le preoccupazioni, e occupazioni, di chi ha a cuore il futuro della libertà e della democrazie perché racchiude implicazioni e le ripercussioni strutturali per il futuro dell’umanità.
All’inizio dell’anno, la National science foundation degli Stati Uniti ha calcolato che nel 2016 il numero di pubblicazioni scientifiche cinesi ha superato per la prima volta quelle made in Usa: 426mila contro 409mila. Con 496 miliardi di dollari spesi, gli Stati Uniti restano il primo Paese in assoluto per investimenti in ricerca, spendendo il 26% del totale mondiale, ma la Cina segue con un incremento del 18% annuo dal 2000 (gli Usa erano solo il 4%) raggiungendo i 408 miliardi di dollari (il 21% del totale globale). Il dato significativo è che nel 2016 la Cina ha totalizzato anche 34 miliardi di dollari investiti da privati in venture capital.
C’è chi ritiene che quantità non significhi qualità, ma è certo che la Cina, come il resto dell’Asia orientale, può ormai competere con scoperte originali e non solo duplicare quanto prodotto in Occidente – la clonazione delle due scimmiette ne è la riprova. La Svezia e la Svizzera producono le pubblicazioni scientifiche più citate, seguite dagli Stati Uniti e altri stati membri dell’Unione europea, ma se gli studi cinesi son quelli meno ripresi dalla comunità scientifica globale e il vantaggio cinese sugli Usa in termini di risultati di ricerca non è valido in tutti i campi – i ricercatori statunitensi ed europei producono più studi (e brevetti) nelle scienze biomediche – la Cina è ormai leader nella ricerca ingegneristica necessaria al potenziamento dell’intelligenza artificiale.
L’estate scorsa, il Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese ha adottato un piano ambizioso per cui, entro il 2030, il Paese dovrà divenire il “principale centro mondiale per l’innovazione dell’intelligenza artificiale”. Secondo alcuni esperti, nel prossimo decennio l’industria nazionale cinese che s’interessa d’intelligenza artificiale potrebbe avere un giro d’affari di 150 miliardi di dollari. Negli ultimi mesi, il governo e l’industria cinese hanno lanciato decine di iniziative relative all’intelligenza artificiale – tra le più importanti la costruzione di un parco tecnologico da 2,1 miliardi di dollari alla periferia di Pechino per ospitare 400 imprese attive nel settore. Secondo la Reuters, il parco si concentrerà su tecnologie emergenti tra cui big data, deep learning, cloud computing e l’identificazione biometrica; il giro d’affari previsto è di 7,68 miliardi di dollari all’anno. Gli investimenti della Cina nel calcolo quantico e i microchip di nuova generazione stanno crescendo in modo talmente esponenziale che l’amministrazione Trump sta bloccando fusioni e acquisizioni di imprese strategiche perché teme per la propria sicurezza nazionale e tiene sotto costante e strettissimo controllo tutto ciò che ha a che fare cogli interscambi nell’industria dei semiconduttori.
L’applicazione di scoperte e invenzioni in un contesto in cui non è possibile un controllo pubblico delle finalità, oltre che dei processi, crea sicuramente molte zone grigie che s’inscuriscono in modo preoccupante per tutto ciò che riguarda la ricerca e sviluppo che confonde obiettivi e priorità civili e militari. Oltre ad assistere e facilitare molte attività umane, i progressi nell’intelligenza artificiale possono esser utilizzati per aumentare a dismisura la sorveglianza indiscriminata o la censura culturale e politica, allo stesso tempo l’intelligenza artificiale fa ormai parte integrante delle tattiche e strategie militari in zone di conflitto molto lontane dai centri di comando. Se è ormai noto l’uso di droni di ricognizione e armati da parte degli Usa e della Nato, meno conosciuto è il piano del governo cinese che sta finanziando lo sviluppo di nuove capacità militari basate sull’intelligenza artificiale nelle decisioni sul campo di battaglia e nelle armi autonome con regole d’ingaggio sconosciute e al di fuori dei codici militari vigenti e internazionalmente riconosciuti. Questi sviluppi tecnologici creano situazioni del tutto al di fuori del diritto umanitario internazionale senza che via un nucleo di Paesi che si stia organizzando per proporne una regolamentazione – e la crisi patente del sistema multilaterale non lascia per sperare per il futuro.
Ma esiste un modo per ingaggiare i governi democratici e non nel tentativo di arrivare al rispetto di regole condivise che consentano, nel caso di specie, la piena applicazione del diritto alla scienza e quindi la promozione e protezione di diritti individuali e collettivi di miliardi di persone?
Da qualche l’Associazione Luca Coscioni ha iniziato ad agire perché questa possibilità possa esistere, posto naturalmente che ci sia a livello istituzionale chi se ne fa carico e che chi predica pratichi. Quanti sono i Paesi democratici che consentono che la ricerca pura vada avanti senza doversi imbattere quotidianamente con divieti ideologici o ostacoli amministrativo-burocratici, croniche mancanze di fondi o assenza di meccanismi meritocratici? Per fornire un primo assaggio di chi fa cosa e come, l’Associazione ha iniziato a compilare un Indice per la libertà di ricerca scientifica e l’autodeterminazione che raccoglie informazioni pubbliche su decine di Paesi relativamente alla ricerca sulle cellule staminali embrionali e sugli embrioni, la procreazione medicalmente assistita, la salute riproduttiva e le scelte di fine vita. L’incrocio dei dati analizzati dal team guidato dal professor Andrea Boggio della Bryant university dimostra come, per esempio, investire in ricerca non implica necessariamente promuoverla e che, tutto sommato, alcuni Paesi europei molto ricchi hanno tassi di libertà di ricerca simili a quelli dell’America latina. Allo stesso tempo, grazie al professore Cesare Romano e a suoi studenti della Loyola Law school di Los Angeles, i dati elaborati dall’Indice consentono la presentazione di rapporti indipendenti che evidenziano ulteriormente il (precario) stato dell’applicazione del diritto alla scienza a livello statuale con tutto quello che questo comporta.
Questo lavoro di monitoraggio e denuncia della violazione del diritto alla scienza dovunque nel mondo vuole esser un contributo perché, a partire dalle Nazioni unite, si ritenga la scienza parte integrante dei diritti umani. Riteniamo che l’effettiva applicazione del “diritto alla scienza” – dovunque nel mondo – possa rappresentare una risposta, tanto a casa nostra che altrove, per evitare che le democrazie liberali vengano travolte dagli sconvolgimenti in corso a causa del progresso tecnologico e per consentire loro di riuscire a migliorare o rafforzare il funzionamento istituzionale. Il combinato disposto della modifica genetica di precisione su vegetali e animali, e dunque anche sugli esseri umani, dell’intelligenza artificiale e della possibilità di intervento sul funzionamento della mente umana, avrà come effetto già nei prossimi decenni un cambiamento dei modi di manifestarsi della natura umana, con la prospettiva alla lunga anche di cambiarne alcuni tratti. L’illusione di rispondere attraverso proibizioni e barriere “etiche” è destinata ad aggravare il dominio di logiche di mero interesse economico/egoistico, le quali, se non governate, porterebbero verso una umanità geneticamente migliorata, o “aumentata”, solo per chi se lo può permettere o secondo direzioni decise illiberalmente dai governanti stessi. Il principio dell’uguaglianza dei cittadini alla nascita diventerebbe definitivamente lettera morta, ponendo una pietra tombale sulla possibilità stessa di esistenza di una democrazia liberale. Ma le democrazie devono aprire un dibattito laico e inclusivo su questi temi. Urgentemente.
Dall’11 al 13 aprile prossimi l’Associazione Luca Coscioni ha convocato la quinta riunione del Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca Scientifica al Parlamento europeo di Bruxelles, il titolo che abbiamo dato all’incontro è “La Scienza per la democrazia“, abbiamo chiesto decine di scienziati, ricercatori, politici, malati e militanti dei diritti umani, di condividere con noi le loro esperienze e le loro raccomandazioni certi che nei prossimi mesi occorrerà portare questo pensiero e le successive azioni in giro per il mondo mobilitando un’alleanza internazionale per il diritto alla scienza per garantire un futuro di libertà e sviluppo sostenibile per quante più persone possibile.