Magari non sarà un’operazione elegante. Magari ad alcuni potrà sembrare persino disgustosa. Ma il trapianto del bioma intestinale – sì, insomma, dei microbi che stanno nelle feci – potrebbe entrare presto a pieno titolo nelle terapie oncologiche. Perché gli studi preliminari dicono che questi nostri ospiti senza ritegno possano essere davvero utili nella lotta contro alcuni tipi di cancro.
Tutto inizia negli anni 90 del secolo scorso, quando alcuni studiosi trovarono un possibile legame tra un microbo, l’Helicobacter pylori, e il cancro allo stomaco. Da quel momento in poi si è compreso che alcuni batteri possono generare infiammazioni che indeboliscono gli strati della mucosa intestinale e, di conseguenza, rendono più facile l’invasione di agenti esterni al corpo. Tutto questo crea – come ricorda Giorgia Guglielmi sulla rivista Nature – un ambiente adatto allo sviluppo di tumori. Fin qui nulla di inatteso. Gli oncologi sanno da tempo che le infiammazioni contribuiscono allo sviluppo di alcuni tipi di cancro e anche che alcune infiammazioni possono dare origine a un tumore.
E da tempo sappiamo – anche se da non molto lo abbiamo messo bene a fuoco – che il nostro bioma è costituito sia di materiale genetico sia di microbi. Di miliardi e miliardi di microrganismi di diverso tipo e genere che caratterizzano un certo ambiente. Anzi, tutti gli ambienti. Compreso il corpo umano. Infatti, sono dappertutto: nel tratto gastrointestinale, certo. Ma anche nella bocca, sulla pelle, negli organi genitali, nel cervello. Sono di specie, appunto, le più diverse: virus, batteri; archeobatteri; eucarioti come protozoi, funghi e nematodi. Sono tantissimi: nel corpo di ciascuno di noi – ricordano Roman M. Stilling e un gruppo di suoi colleghi in un articolo pubblicato poco tempo su Frontiers in cellular and infection microbiology – vi sono qualcosa come 100mila miliardi di cellule non umane, per un peso complessivo compreso tra 1 e 2 chilogrammi e con un patrimonio genetico che ammonta a 9,9 milioni di geni non umani. Il che significa che nel nostro organismo per ogni gene “nostro” vi sono attivi almeno 500 geni “altri”. I soli batteri amici sono di 40mila specie appartenenti a 1.800 generi diversi. Tutti questi ospiti formano il nostro microbioma: senza il quale non solo non potremmo vivere, ma non ci saremmo neppure potuti evolvere.
Sappiamo tutto questo, ma non mancano le sorprese. La maggiore sorpresa è stata la scoperta recente – risale al 2013 – che alcuni batteri possono essere nostri amici nella lotta al tumore, perché aiutano la capacità di contrasto del cancro da parte di una nuova classe di farmaci utilizzata nell’immunoterapia antitumorale. E questi batteri amici si trovano e prolificano proprio nell’intestino. Sì è visto, in particolare, che questi farmaci sono molto efficaci in individui che nel loro intestino hanno certi tipi di batteri e del tutto inefficaci in individui che invece non presentano microbi amici.
Di più. Proprio cinque anni fa, infatti, il gruppo diretto da Laurence Zitvogel all’Istituto Gustave Roussy di Parigi e quello di Romina Goldszmid e Giorgio Trinchieri al National cancer institute di Bethesda, Maryland, Usa, hanno mostrato che alcuni trattamenti basati sul microbioma intestinale riuscivano ad attivare le risposte immunitarie di alcuni pazienti oncologici.
Così, con una forte accelerazione negli ultimi tre anni, è iniziata un’intensa attività di studio sui legami tra i microbi dell’intestino e la terapia del tumore. Lo stesso Laurence Zitvogel ha verificato, allora, che le ciclofosfamidi utilizzate come farmaci oncologici danneggiano le mucose, consentendo ai batteri dell’intestino di uscire dai loro luoghi usuali, raggiungere i linfonodi e attivare una benefica risposta immunitaria al cancro. La stessa équipe parigina ha poi verificato che esiste una sinergia tra i batteri intestinali e un’altra classe di farmaci oncologici, quelli che i medici conoscono come “inibitori checkpoint”. Farmaci che risultano efficaci solo nel 20-40% delle persone trattate. Ebbene, Zitvogel e il suo gruppo hanno verificato che gli “inibitori checkpoint” sono efficaci nei topi che ospitano nel loro intestino un certo microbioma e del tutto in efficaci nei topi che quel microbioma non lo possiedono.
Queste scoperte hanno prodotto una reazione a catena, si è iniziato a verificare sia l’efficacia del trapianto di bioma intestinale nei topi sia il rapporto tra microbioma e farmaci antitumorali anche nell’uomo. Si è sperimentato anche il trapianto di bioma intestinale umano nelle viscere dei topi. Tutti con risultati promettenti. Tanto che lo scorso mese di novembre Laurence Zitvogel e alcuni colleghi americani hanno pubblicato un articolo sulla rivista Science in cui tirano un po’ le fila di tre anni di ricerche e dimostrano che i batteri amici tendono non riescono a lavorare in modo efficace se il soggetto (un topo da laboratorio) è stato curato con antibiotici anche per infezioni che nulla hanno a che vedere con il cancro.
Insomma secondo Laurence Zitvogel e i suoi colleghi americani ci sono dati più che sufficienti e incoraggianti per passare alla sperimentazione clinica del trapianto di bioma intestinale. Ovvero da uomo a uomo. In realtà, tutto è pronto, riporta ancora Nature. Hassane Zarour, un immunologo della University of Pittsburgh in Pennsylvania, è già in accordo con la casa farmaceutica Merck per raccogliere i batteri fecali da persone che hanno reagito positivamente agli “inibitori checkpoint” e trapiantarli in persone che non hanno risposto al trattamento. La sperimentazione inizierà nel giro di poche settimane. Per la cronaca: la Merck ha investito 900mila dollari nella sperimentazione.
Allo stesso modo, Jennifer Wargo, scienziata e chirurgo dell’Anderson cancer center di Houston, in Texas, insieme al Parker institute for cancer immunotherapy di San Francisco, in California, e all’azienda biotech Seres Therapeutics di Cambridge, sta iniziando a verificare se il trapianto di microbioma intestinale da persone che rispondono alle terapie è in grado di ricostruire un nuovo ambiente microbiologico efficace contro i tumori nelle persone che non rispondono alle terapie.
Ma di sperimentazioni progettate e persino in corso ce ne sono, in molti ospedali oncologici. Mentre l’idea di mettere in campo il microbioma intestinale sta interessando molti ricercatori impegnati anche nella cura di altre malattie, non di natura oncologica. A febbraio, per esempio, la Infectious diseases society of America ha raccomandato ai medici affiliati di utilizzarlo, il trapianto di microbi dell’intestino, nel trattamento di coliti e altre infezioni causate dal batterio, il Clostridium difficile, presente nel 3% degli adulti e persino nel 70% dei neonati, che come avverte il nome non è sempre semplice da trattare.
Dunque il poco elegante e persino disgustoso ma, a quanto sembra, efficace trapianto funziona. E, in ogni caso, genera molte attese. Tuttavia, dicono molti ricercatori, ci sono ancora molti punti da chiarire. Finora abbiamo parlato in maniera abbastanza generica di microbioma intestinale. Non è stato un caso. È che i ricercatori non sanno ancora bene né quali sono i batteri amici che ci possano aiutare (anche) a combattere il cancro e altre malattie né, a maggior ragione, quali sono i meccanismi precisi con cui la esplicano, questa loro amicizia.
Non sappiamo neppure se per attivare la loro azione terapeutica il microbioma intestinale ha bisogno di altri cofattori. E quali. È anche per questo che i ricercatori francesi e americani hanno iniziato studi in cooperazione, per verificare se c’è e quanto conta il fattore dieta. Ma studi di questo tipo dovranno continuare.
C’è, tuttavia, qualche “ma” sull’avvio di sperimentazioni cliniche, sollevato da altri ricercatori critici, come è normale che sia nell’attività scientifica. Li possiamo riassumere, questi diversi ma, in poche righe. Data questa enorme mole di incertezza – non conosciamo né i batteri terapeuticamente attivi né il meccanismo d’azione preciso -, la sperimentazione sull’uomo del trapianto del microbioma intestinale potrebbe risultare piuttosto rischiosa. Si potrebbero avere effetti collaterali. Non sappiamo, infatti, come la ristrutturazione del bioma possa rompere gli equilibri fisiologici. Non sappiamo se il trapianto aiuta a combattere il cancro ma predispone il paziente ad altre malattie. Non sappiamo, infine – anche se le precauzioni in caso di trapianto sono sempre molto alte -, se il trasferimento favorisce la diffusione di agenti infettivi rari e pericolosi.
Sono tutti nodi da sciogliere, forse prima che il trapianto del bioma intestinale entri nell’ultima fase della sperimentazione, quella clinica.