Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta, che lavora presso un Centro di salute mentale della Asl Roma 4, e collabora con il centro SaMiFo (Salute migranti forzati) della Asl Roma 1. Poiché da anni si occupa di salute mentale di richiedenti protezione internazionale e rifugiati, le abbiamo rivolto alcune domande, per capire in che modo un Paese ospite dovrebbe porsi nei confronti degli immigrati per garantire loro il diritto all’accoglienza e l’integrazione nel tessuto sociale.
Qual è il disturbo riscontrato più di frequente in un migrante nel momento in cui riesce ad arrivare a destinazione?
Gli studi sui disturbi mentali dei migranti sono poco affidabili, poiché la definizione di “migranti”, essendo molto vasta, è difficilmente indagabile. Fanno parte di tale categoria tutti coloro che si spostano dal proprio Paese per andare a vivere in un altro luogo, per qualsiasi motivo, dagli italiani che vanno a Londra a coloro che giungono in Europa su imbarcazioni di fortuna. E ciò con le più svariate motivazioni migratorie: lavoro, studio, o guerre, persecuzioni, fame. Tra coloro che migrano in Italia, provenendo da luoghi con culture molto diverse dalla nostra, sono frequenti disturbi dell’adattamento. Ciò può essere legato all’impatto con la nostra società, con costumi, usanze, ma anche modi diversi di vivere le relazioni sociali e gli scambi con gli altri esseri umani. Nell’esperienza clinica con richiedenti e titolari di protezione internazionale, categoria invece più definita, la patologia più frequentemente riscontrabile è senza dubbio il disturbo da stress post-traumatico, che in letteratura ha una prevalenza venti volte superiore rispetto alla popolazione generale. In passato questa patologia era considerata la conseguenza diretta di eventi traumatici importanti (ad esempio violenze subite, rischio di morte propria o altrui), invece nell’ultimo decennio è stato osservato che può essere causata anche da piccoli stressors ripetuti nel tempo. Tutto questo ci fa riflettere sulla responsabilità del Paese di arrivo nel mantenere, o persino causare, i problemi di salute mentale degli immigrati, già messi alla prova dall’esperienza migratoria.
Da cosa non dovrebbe prescindere l’“accoglienza” per potersi definire tale?
Queste persone arrivano da noi con aspettative più o meno realistiche: avere una vita migliore, un lavoro, un posto nella nostra società. Spesso queste aspettative vengono deluse. In Italia l’accoglienza è basata principalmente sui bisogni materiali (cibo, acqua, un tetto, vestiti) fondamentali da soddisfare, ma è molto carente per quanto riguarda la considerazione delle esigenze umane. Ognuno di noi si caratterizza per avere una tendenza naturale alla realizzazione di sé nel rapporto con gli altri. Questo rapporto non è basato sull’utile, come le formiche che si organizzano per accumulare cibo per l’inverno, bensì sull’inutile, ad esempio ascoltare un concerto, dipingere un quadro, fare tardi con un amico che è triste, anche se il giorno dopo ci si deve svegliare presto. Questa tendenza alla realizzazione di se stessi nel rapporto con gli altri, è anche alla base delle scelte irrazionali di chi giunge da Paesi lontani. Già prima di partire alcuni sono consapevoli che durante il viaggio rischiano di subire violenze o morire, ma non gli interessa. Cercano qualcosa che non sanno spiegare, e la tendenza a seguire questa spinta interna è troppo forte: è un’esigenza. Arrivando da noi, salvo rare eccellenze nell’accoglienza, si trovano sbarrata la possibilità di seguire questa spinta. Pensando solo alla soddisfazione dei bisogni, si arriva addirittura a mettere in discussione l’esistenza stessa delle loro esigenze. Così, considerandoli alla stregua di animali, che appunto non hanno esigenze, vengono privati della loro umanità. Quindi possiamo pensare che un Paese che vuole accogliere, non può prescindere dal riconoscere un’identità umana ai migranti. Cosa niente affatto scontata negli ultimi tempi.
Il razzismo, l’odio e la negazione del ruolo sociale degli stranieri possono essere cause patogene e perché?
I richiedenti protezione internazionale sono persone che hanno subìto violenze. Una donna irachena ha perso il fratello per aver denunciato i membri di un gruppo terroristico. Un ragazzo bengalese è stato ridotto in fin di vita, perché si è ribellato a un matrimonio combinato. In Libia tutti subiscono arresti e violenze di ogni genere. Inoltre, fino al 2016, chi arrivava in Libia e si imbarcava per l’Europa, in caso di naufragio aveva buone possibilità di essere salvato dalle navi delle Ong e trasportato in un porto sicuro, nel rispetto delle leggi internazionali che regolano il diritto alla protezione.
Questo non accade più, per via del Codice di condotta imposto alle Ong da Minniti nel 2017 e, più di recente, per la chiusura dei porti decisa da Salvini e Toninelli.
Quando sentiamo che una nave italiana soccorre 108 migranti e li porta nel porto di Tripoli, rimaniamo attoniti. Queste persone, dopo aver subìto quello che abbiamo detto, stanno per arrivare su una terra che immaginano sicura e accogliente, ma vengono riportati, dagli stessi cittadini di quella terra, nelle mani dei carnefici! Un’azione del genere, mettendo intenzionalmente e consapevolmente a rischio la sopravvivenza delle persone, costituisce una chiara violazione del diritto alla protezione internazionale. Dopo quanto detto sulle aspettative deluse, si comprenderà come questa condotta sia estremamente distruttiva, anche dal punto di vista della salute mentale. Tale atto è una violazione dei diritti umani a 360 gradi, compreso il diritto alla salute, definito dall’Oms come «uno stato complessivo di benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattie o infermità». Le violenze, subite fin qui per mano di altri esseri umani, possono determinare nel migrante la perdita di quella fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri. Poi il confronto con episodi di violenza, psichica o fisica, di natura razzista, che accadono qui da noi, rende ancora più profondi la diffidenza e il distacco dagli altri, determinando un isolamento sempre maggiore e la sfiducia completa proprio verso quel Paese, il nostro, immaginato come salvifico. Per questo lo psichiatra che cura queste persone è messo alla prova nel dover dimostrare continuamente di meritare la loro fiducia.
In Italia vivono oltre 5 milioni di stranieri, tra questi ci sono anche circa 800mila “italiani senza cittadinanza”. Giovani figli di immigrati che qui sono cresciuti, hanno studiato, etc. Perché l’“altro”, in alcuni individui, provoca reazioni disumane?
Qui dobbiamo sottolineare che i media, così come i politici, che sarebbero tenuti a fare i dovuti distinguo, mescolano tutto, confondendo migranti, rifugiati, irregolari, braccianti, ex migranti che vivono qui da anni, persone nate qui da genitori stranieri, con o senza cittadinanza. Dando all’uno o all’altro, di volta in volta, l’appellativo più ad effetto sull’opinione pubblica. Questo calderone si basa su un’unica qualità in comune tra queste persone: l’essere stranieri. Questa parola può avere diversi significati. Ci sono persone che possono essere considerate straniere per lingua, cultura, usi e costumi. In questo senso, straniero può avere un valore positivo, portare elementi nuovi a una cultura come la nostra e contribuire a trasformarla, di solito in senso evolutivo. Ma questo non vale per gli “italiani senza cittadinanza”, che sono cresciuti nella nostra società, parlano la nostra lingua, hanno le nostre usanze. In questo caso la parola straniero non ha senso, allora viene usata con il significato, totalmente vuoto, di “colore della pelle diverso”. Gli episodi di razzismo a cui assistiamo ormai tutti i giorni da quando si è insediato questo governo (e da esso appoggiati, quando non causati in modo indiretto), sono basati proprio su questo livello di evidente stupidità. Quello che è successo a Daisy Osakue è l’emblema del contenitore vuoto su cui si fonda il razzismo. Cittadina italiana, atleta, quindi rappresentante dell’Italia nelle competizioni sportive, viene vista da tre “gusci vuoti” solo per il colore della sua pelle, e perciò aggredita.
Che tipo di “pensiero” c’è dietro queste dinamiche?
Qui servirebbe un discorso sulle origini storiche del razzismo, ma sarebbe troppo lungo (per approfondire vedi box a lato, ndr). Mi preme però dire che un pensiero che si basa sul colore degli occhi, dei capelli o della pelle è un discorso senza contenuto, che parla solo della realtà fisica, genetica dell’uomo. Questa è una realtà assodata, è così in ogni continente, abbiamo tutti 23 cromosomi, 2 braccia, 2 gambe e 20 dita (salvo malattie), ma non è la realtà materiale che fa l’identità umana. L’identità umana sta nella realtà non materiale che ci rende diversi dagli animali, che, come dicevo prima, non fanno cose inutili come suonare uno strumento, così come non si innamorano, ma hanno l’estro e si accoppiano al fine di riprodursi. Noi invece, indipendentemente dal colore della pelle, ci divertiamo, siamo tristi, ci arrabbiamo, amiamo e sogniamo. Questo perché abbiamo un’uguaglianza fondamentale nel pensiero non cosciente, irrazionale, diverso dal pensiero razionale che si muove solo per l’utile. Pensiero non cosciente che, come ha scoperto lo psichiatra Fagioli (vedi www.massimofagioli.com), si crea alla nascita con una dinamica specifica e uguale per tutti gli esseri umani, che porta il neonato ad avere la certezza che esistono altri esseri umani simili a lui con cui avere rapporto, la fiducia che ognuno di noi ha naturalmente verso gli altri, di cui dicevamo prima. Le manifestazioni di odio che vediamo ogni giorno, contrariamente a quanto sentiamo dire di solito, parlano della perdita totale di questa realtà irrazionale e del dominio esclusivo della ragione stupida, che vede solo la realtà fisica delle cose.