A quattro mesi dall’entrata in vigore della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) è ancora pressoché nulla l’informazione istituzionale su questo importante e delicato strumento disposizione dei cittadini che vogliono redigere il loro cosiddetto testamento biologico. Per sopperire a questa mancanza, distribuendo materiale informativo nelle principali piazze italiane, l’associazione Luca Coscioni, insieme a Radicali italiani, Unione atei e agnostici razionalisti e Chiesa pastafariana italiana, ha indetto per il 21 aprile la Giornata del testamento biologico. Si tratta di una importante occasione di chiarimento delle modalità di attuazione della legge 219/17, arrivata dopo anni di attesa alla fine di un iter che si avviò solamente nel 2009 dopo la morte di Eluana Englaro. Uno dei principali nodi da sciogliere, informando le persone interessate, è costituito dal ruolo dei comuni. Da un lato infatti le amministrazioni locali non sono tenute a istituire un registro dei testamenti biologici (anche se molti lo stanno facendo “spontaneamente”), dall’altro sono obbligate a ricevere e conservare le Dat autenticate dei cittadini disponenti. Un’altra questione centrale riguarda l’obiezione di coscienza. Come molti ricorderanno, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin a legge fresca di approvazione (era il 22 dicembre 2017) si affrettò a invocare la necessità di prevedere per i medici il diritto all’obiezione di coscienza. Il messaggio, sebbene giunto fuori tempo massimo, ha contribuito ad alimentare confusione sui contenuti della norma che in nessun modo contempla questa possibilità. Per le associazioni impegnate sul fronte del riconoscimento dei diritti sul “fine vita”, la normativa sul testamento biologico è anche un punto di partenza verso una legge che regolamenti suicidio assistito ed eutanasia. Il suicidio assistito, spiega l’associazione Coscioni, «è una forma di eutanasia, legale in Svizzera, dove a seguito di un iter strettamente regolamentato, e sotto controllo medico, la persona che ne fa richiesta autonomamente si somministra il farmaco, senza intervento di terzi». Punto cardine della battaglia è la legge di iniziativa popolare nota come “eutanasia legale”, presentata nel 2012, che si fonda sulla libertà e la responsabilità «di scegliere per se stessi fino alla fine». Un modello di riferimento normativo è rappresentato dalla legislazione olandese dove già dal primo aprile 2002 esiste una legge su eutanasia e suicidio assistito in presenza di «sofferenza insopportabile», come bene spiega Libertà di decidere – il fine vita volontario in Olanda di Johannes Agterberg uscito in Italia per New Press.
Un libro che può aiutare a far tesoro dell’esperienza di applicazione della legge olandese e capire quali siano le reali difficoltà e i rischi legati all’iter italiano. Non si può non considerare infatti che una pur piccola percentuale dei casi olandesi di suicidio assistito riguarda pazienti psichiatrici. Si tratta di pochi casi rispetto al totale delle richieste che ogni anno provengono da pazienti di questo tipo, che in larga maggioranza vengono respinte. Come nel caso della diciannovenne che lo scorso 17 marzo si è poi suicidata autonomamente con sostanze chimiche acquistate su internet, caso per il quale la magistratura olandese ha aperto un’inchiesta su una cooperativa di assistenza per richiedenti eutanasia o suicidio assistito. È bene precisare, per completezza, che il via libera al suicidio assistito di un paziente psichiatrico viene concesso solo se è riconosciuta la sua capacità di intendere e di volere. Ma per certi versi è proprio qui il punto. Ci si può basare solo su questo fattore per valutare? La depressione non può in alcun modo essere considerata alla stregua di una malattia terminale, dice la moderna psichiatria. Dunque la decisione di togliersi la vita da parte di una persona affetta da depressione non può essere considerata una scelta libera e consapevole.
A questo proposito approfondisce la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti dell’Azienda ospedaliera universitaria senese: «La capacità di intendere e di volere è un concetto giuridico molto aleatorio che si limita alla sola coscienza. Quando si parla di assistenza al suicidio o di eutanasia bisogna distinguere fra malattia organica terminale o comunque gravemente invalidante e malattia mentale, la cui eziopatogenesi non è cosciente e alla quale non è applicabile il concetto di capacità di intendere e di volere». E già questo spiega perché in Italia una discussione politica approfondita su questi temi dovrebbe iniziare al più presto. Non solo per garantire il diritto alla cura e alla salute ma anche per marcare la differenza con la proposta della parlamentare olandese Pia Dijkstra, che nel 2016 nel suo Paese ha presentato un disegno di legge sull’eutanasia per i casi di “vita completa”, ovvero anche in assenza di patologia. Chiediamo quindi alla professoressa Gatti se l’introduzione di un’esplicita esclusione delle patologie psichiatriche, nel testo della proposta di legge sull’eutanasia, sarebbe raccomandabile. «Il diritto a un fine vita dignitoso per chi oggettivamente soffre per una “malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi” (così recita la proposta di legge del comitato “Eutansia legale”, ndr) verrebbe così tutelato. Allo stesso tempo verrebbe ribadita la necessità di un intervento psichiatrico in chi manifesti intenti suicidi legati ad una depressione. Per quest’ultima la cura esiste».
Articolo pubblicato su Left del 20 aprile 2018